La parashà di Ki tavò contiene ammonimenti duri e secchi che i nostri Maestri hanno rinominato con il termine kelalot – “maledizioni”.
«Ve hajà ki tavò el ha aretz»
«E avverrà, quando giungerai sulla terra […]» (Devarìm 26;1).
Rash”ì sostiene che in qualsiasi occasione in cui il testo inizia con la parola ve hajà il suo seguito sarà sicuramente positivo.
Cioè l’inizio di un racconto con la parola ve hajà è sintomo di lieto fine, mentre quando il racconto inizia con la parola va jehì – (lett. “e fu”), il fine o perlomeno il contesto del racconto, non sarà tanto lieto.
Allora, sostengono i Maestri, perché essa contiene le kelalot?
Per comprendere la risposta, bisogna fare un salto indietro fino al libro di Vaikrà: nella parashà di Bechuccotai (Vaikrà 26; 14 – 45) è contenuto un brano simile a quello in causa, ma in forma più leggera, tanto che i Maestri lo hanno chiamato tokhachot (lett. “ammonimenti”).
Alcuni commentatori, al fine di distinguerli, li hanno denominati: tokhachà ketannà (piccolo ammonimento, in riferimento al passaggio di Vaikrà), mentre quello di Devarìm è stato chiamato tokhachà ghedolà (lett. “grande ammonizione”), caratterizzato, cioè, da una forma più severa e cruda.
Come possiamo dunque conciliare l’argomentazione di Rash”i circa la paralo ve hajà?
Soltanto chi ha la forza e l’onestà di ammonire, anche in modo duro, riesce a far capire quanto affetto nutre per qualcuno.
Un proverbio ebraico italiano suona con le parole: «chi ti vuol bene ti fa piangere e chi ti vuol male ti fa ridere […]».
Il Signore Iddio ama il popolo di Israele e per questo lo mette in guardia per il suo comportamento.
Shabbat shalom
Rav Alberto Sermoneta
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