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-Parashà TERUMA'-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT TERUMÀ

«Parla ai figli di Israele e prendano per me una offerta […]» (Shemòt 25;2).

I Maestri si chiedono come mai la Torà adopera il verbo “prendano” e non “diano” visto che si tratta della richiesta di un’offerta da parte divina per costruire il MISHKÀN – Tabernacolo mobile del deserto, proponendo numerose possibilità di risposta:

Il Minchà belulà, testo di esegesi biblica, spiega dicendo che se colui a cui è predisposta l’offerta è un personaggio importante, colui che la offre è considerato colui che la riceve e per questo è detto prendano per Me un’offerta anzichè  diano a Me un’offerta

Il Malbim afferma che se l’espressione diano a Me un’offerta avrebbe implicato che l’opera dell’edificazione del mishkàn si sarebbe retta interamente su una tassa obbligatoria, costringendo il popolo ad elargirla. Prendano per Me un’offerta, come compare sulla Torà, ne sintetizza il carattere assolutamente volontario del contributo, elargito spontaneamente, in base alle proprie possibilità. Per questo motivo il popolo, si sentì in dovere di nominare dei preposti a questa mansione – parnasim o gabbaim, in modo tale che avessero provveduto alla riscossione di tale offerta.

Infine, si ricorda il principio che chiunque faccia tzedakà non vada mai in perdita; egli, infatti, viene ricompensato per tutto quello che spende per adempiere alla mitzvà.

Questo concetto è ribadito più volte dai nostri Maestri, i quali, parlando della tzedakà esprimono un grande concetto che nulla ha a che fare con l’elemosina o addirittura con la carità.

Sia l’elemosina che la carità, pongono su due piani chi la dà e chi la riceve, poiché esiste palesemente un modo esteriore di fare l’elemosina davanti a tutti e soprattutto, riceverla davanti a tutti.

La tzedakà – atto di giustizia, deve esser fatta senza che chi la riceve sappia di chi la fa, ma soprattutto essa non si limita ad essere una elargizione materiale, ma può essere fatta, anche attraverso un gesto morale.

Lo scopo di questa offerta in questione, non era soltanto quello di costruire un Santuario o Tabernacolo mobile – MISHKAN-, nella sua materialità, ma era quello di riuscire nell’intento di tenere il popolo unito.

Il Mishkan prima, il Bet Ha Mikdash poi, sono stati i punti di riferimento di tutto il popolo ebraico, nel corso di molti secoli; quel Luogo che ha fatto sì che il popolo non si spaccasse, ma ritrovasse, attraverso di esso, una convergenza ed una condizione di unicità che lo faceva essere diverso da tutti gli altri popoli della terra.

Il nostro Bet ha Mikdash, quello della nostra era, che ci vede privi di un così grande bene, può essere identificato nella lingua ebraica che accomuna tutto il popolo, sparso in ogni angolo della terra, almeno nei momenti della recitazione della tefillà.

Pochi sono i simboli della nostra tradizione, ma sicuramente il Bet ha Keneset – la Sinagoga e la preghiera che in essa viene recitata, hanno la forza di sostituire il Bet ha Mikdash, se non fisicamente, almeno dal punto di vista della identità del popolo di Israele.

Shabbat shalom,
Chodesh Tov,
Rav Alberto Sermoneta

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