- Parashat devarim -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Questo Shabbat inizieremo la lettura del quinto ed ultimo sefer della Torà, conosciuto anche come Mishnè Torà poiché in esso vengono riassunte le parti fondamentali della vita del popolo durante i quaranta anni di permanenza nel deserto.
Il libro contiene i discorsi ammonitivi che Mosè rivolge al popolo prima di congedarsi definitivamente.
Questi ultimi sono molto duri; Mosè si esprime, infatti, come un padre si rivolgerebbe ai propri figli, ammonendoli e rammentandogli le numerose occasioni in cui costoro hanno adottato un comportamento sbagliato.
La parashà di Devarim è quella che contiene le espressioni più aspre di Mosè, in cui si enfatizzano le nefandezze di ‘Am Israel e i suoi continui sbagli.
Non è un caso che questo Shabbat cada sempre in prossimità del giorno più luttuoso della storia del popolo ebraico – Tishà beav – giorno in cui il popolo piange la distruzione del I e del II Tempio di Gerusalemme, simbolo per il coincidente susseguirsi di sciagure avvenute al nostro popolo nel corso dei secoli.

La haftarà che leggeremo inizia con le parole «Chazon Jeshajahu […]» – «visione di Isaia […]» (Is 1;1), in cui il profeta ammonisce il popolo ebraico, per il suo comportamento lontano dai principi della Torà, e per questo verrà punito dolorosamente. La correlazione tra parashà e haftarà è così cruciale che questo Shabbat prende il nome dalla prima parola della haftarà: Shabbat chazon – (lett. “Shabbat della visione”).
Isaia, vissuto molto prima della distruzione del I Tempio, ne profetizza dettagliatamente il tragico epilogo e il conseguente esilio, causati dalla condotta del popolo.

Una delle espressioni di stupore che Moshé pronuncia all’inizio della nostra parashà, suona con le parole:
«Ekhà essà levaddì torchakhem u massaakhem ve rivekhem»
«Come è possibile sopportare da solo la vostra insistenza, la vostra pesantezza e la vostra litigiosità?
» (Devarim 1;12). Moshè, rivolgendosi al popolo non gli nasconde quanto, durante i quaranta anni di permanenza nel deserto, lo abbiano consumato a causa delle loro frequenti trasgressioni.

Con lo stesso interrogativo si apre l’haftarà:
«Ekhà hajetà le zonà qirià neemanà […]»
«Come è possibile che la città conosciuta come la Città di fede, viene chiamata prostituta?» (Is. 1;21).

Lo stesso vale per l’inizio dei capitoli delle Lamentazioni che leggeremo la sera e la mattina del 9 di Av:
«Ekhà jashevà badad ha ‘ir rabbati ‘am […]»
«Come è possibile che risieda solitaria la città famosa per la numerosa presenza di popolo?[…]» (Ekhà 1;1).

Nel piangere l’assedio, la distruzione di Gerusalemme e la deportazione del suo popolo, Geremia si chiede nello stesso modo di Moshè prima, di Isaia dopo, come è possibile che un popolo possa ridursi a tanto squallore?
In un altro passo della Torà troviamo un sottinteso che fa riferimento allo stesso interrogativo stupito di Moshè, Isaia e Geremia.
Al capitolo 3 verso 9 del libro di Bereshit, Adamo ed Eva trasgrediscono il primo ordine divino, quello di non mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.
Dopo averlo mangiato, coprono le loro nudità come forma di pudore, nei confronti del Creatore e si nascondono perché si vergognano di esser nudi.
La domanda divina all’Uomo è: “aiekka – dove sei?”.
Se leggiamo la parola come appare scritta sul Sefer Torà, senza punteggiatura, ci accorgiamo che essa è scritta con le stesse lettere di ekhà. Il Signore, vedendo l’uomo costretto a nascondersi al Suo cospetto, oltre al domandargli dove sei si chiede meravigliato: come mai; ossia: come mai ti sei ridotto ad abbassarti ad una condizione tale?
L’uomo durante il percorso della sua vita, a volte si perde per la strada ma deve avere la tenacia di ritrovare la giusta via, altrimenti cade nel profondo dell’immoralità.
‘Am Israel in Eretz Israel, all’epoca in cui esisteva il Bet ha Miqdash viveva al culmine del suo splendore; attraverso il cattivo comportamento nei confronti del suo prossimo, perde la sua dignità, si abbassa ad un livello tale da essere necessario chiedersi: come mai? Cosa hai fatto?

I Chakhamim del Talmud sostengono che, se il primo Tempio fu distrutto a causa della non osservanza delle mitzwot, il secondo fu dato alle fiamme a causa della mancanza di rispetto fra un uomo e suo fratello: lashon ha ra’.
Quando decade il rispetto umano dell’uomo verso suo fratello, vengono a cadere tutte le regole del vivere e dell’appartenenza: quindi di fratellanza.
La storia, la nostra storia di oltre tremila anni, dovrebbe averci fatto comprendere tutto questo, eppure ancora oggi amiamo andare in giro a spettegolare di nostro fratello dello stesso con cui nel corso della nostra storia abbiamo condiviso, oltre che gioie, sicuramente molte sofferenze.

Possa il Signore D-o Benedetto ricompensarci del lutto che noi facciamo per la distruzione di Gerusalemme, facendoci gioire nel vedere la sua ricostruzione e il nostro riavvicinamento a nostro fratello.

 

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

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