PARASHAT VA YAQHEL

-PARASHAT VA YAQHEL-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

                                   

                                     Shabbat Parà, PARASHAT VA YAQHEL

 

All’inizio della parashà di Va yaqhel viene nuovamente rammentato il dovere dell’osservanza dello Shabbat ed il divieto assoluto della sua profanazione, anche per un’opera sacra come quella della costruzione del Mishkàn. Al verso 3 del capitolo 25 viene impartito il divieto assoluto di accendere il fuoco di Shabbat e la pena per coloro che profanano questa importante mizvà: «[…] non accenderete il fuoco nelle vostre abitazioni nel giorno dello Shabbat».

I Rabbini del Talmud si chiedono che cosa voglia insegnarci questo versetto poiché questa specifica proibizione viene già menzionata nelle parashòt precedenti.

Nel Talmud si riporta: «ha detto Rabby Jehudà, ha detto Rav: “tutti coloro che si deliziano di Shabbat tutte le loro richieste saranno esaudite dal Cielo” in quanto è detto: “ e ti delizierai del Signore ed Egli ripagherà i desideri del tuo cuore” (Tehillìm 37; 4)».

«”Questa ‘delizia’ io non la conosco” – dice Rabby Jehudà – mentre è anche detto: “e chiamerai lo shabbat, ‘delizia’ (Isaia 58 v.13) questa ‘delizia’ è lo Shabbat.

Da qui si deduce che la delizia con cui il Signore ci premierà nel mondo a venire, non è altri che lo Shabbat; secondo ciò che è detto nel Talmud «il mondo a venire – l’olam ha ba – è quel luogo dove ogni giorno sarà per l’eternità, tutto sabato e riposo per l’eternità».

Mentre in questo mondo – l’olam ha zè – l’opinione di Rabby Chijà figlio di Ashì è, che qualsiasi cosa, anche piccola fatta in Suo onore, ci delizierà di Shabbat.

 

Shabbat Shalom,
Rav Alberto Sermoneta

 

Parashà Ki Tissà

-Parashà Ki Tissà-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

                                                

PARASHAT KI TISSA’

La parashà di Ki Tissà comincia con una mizvà molto particolare: censire il popolo ebraico, attraverso l’offerta da parte degli uomini che hanno compiuto il ventesimo anno di età, ovvero quella di offrire mezzo siclo d’argento.

Ciò che ci insegna la Torà è che il popolo di Israele non si può contare, di conseguenza ci viene comandato di portare un oggetto, in modo che si possa contare la somma degli oggetti al posto di chi invece li porta.

Il mezzo siclo invece, rappresenta l’offerta obbligatoria che ogni uomo ebreo deve portare; un’offerta che eguaglia tutti, compresi ricchi e poveri.

La Torà, sottolinea infatti che il ricco non poteva aumentare l’offerta, né il povero poteva diminuirla, nessuno poteva o doveva offrire di sua volontà, ma tutti secondo l’ordine divino.

Alcuni commentatori si chiedono il motivo del mezzo siclo e perché non uno intero; a questa domanda si risponde dicendo che, in mezzo al popolo ebraico non esiste uomo o donna che non abbia bisogno del suo prossimo:

Ognuno deve pensare di avere qualcuno vicino che, nel momento del bisogno possa sostenerlo.

Ogni ebreo è dipendente da suo fratello e ne è responsabile delle sue azioni; non ci si può alienare da questa sorte, da questo destino:

Israel arevim ze la ze – ogni ebreo è garante dell’altro, insegnano i nostri maestri, esortandoci a vivere una vita sociale ebraica degna del nome che portiamo e del popolo a cui facciamo parte.

Ognuno ha una grossa responsabilità nei confronti del suo prossimo, ma soprattutto nei confronti del suo popolo, tenendo sempre bene a mente che se D-o ne guardi, accada qualcosa al proprio popolo, deve guardare nel suo intimo se qualcosa è stato fatto di male.

Tutto ciò è quello che accadde, nell’episodio narrato sempre nella parashà in questione, del vitello d’oro, in cui una piccola parte del popolo, chiese di costruire un idolo per poi fare atti di adorazione, la colpa ricadde su tutto il popolo, anche su chi invece si era mantenuto legato alla sua tradizione.

Soltanto nel momento in cui avviene una teshuvà collettiva e seria, si può pensare di recuperare il rapporto con la divinità, con se stessi e quindi anche cercare di intercedere, come fece Mosè per il popolo di Israele, verso il Signore Iddio, fino ad ottenere il perdono.

Shabbat shalom

Alberto Sermoneta

Parashà Tetzavè

-Parashà ZACHOR TETZAVè-

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- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

                                                 SHABBAT ZAKHOR 
E’ lo Shabbat che precede la festa di Purim, in cui si celebra lo sforzo che la regina Ester fece per scongiurare il pericolo di Aman l’Agaghita – discendente di Amalek – che minacciava di sterminare tutte le comunità ebraiche del vasto regno di Assuero. Anche nella storia di Purim c’è il gioco di nascondere la propria faccia – la propria identità: Adassà che non dice di essere ebrea e nascondendo la propria realtà si fa chiamare Ester che vuol dire nascosto; D-o stesso nasconde la propria faccia al suo popolo, provocandogli un grosso spavento, fintanto che tutti non si ravvedono e si rivolgono a Lui, implorandogli il perdono.

A volte, anche chi è particolarmente famoso, ha bisogno di restare dietro le quinte, per far spazio agli altri e rendersi conto di come essi se la cavano ad affrontare situazioni difficili. Aaron doveva diventare la massima carica spirituale del popolo, così suo figlio che lo avrebbe, di li a poco sostituito: non poteva sempre essere guidato in ogni passo da Moshè! Così Adassà – Ester, che doveva essere regina ed essere quindi la rappresentanza e l’orgoglio del suo popolo – una minoranza – doveva dimostrare di essere all’altezza di gestire una situazione pericolosa.

Hashem si fa da parte, resta dietro le quinte, per far spazio a costoro, per assistere passivamente a ciò che accade; ma come un buon genitore è però sempre pronto ad intervenire a Suo modo, per salvare il popolo ebraico da intromissioni esterne.

 

Shabbat Shalom e Chag Purim sameach
Rav Alberto Sermoneta

 
Un cordiale Shalom

Parashà TERUMA’

-Parashà TERUMA'-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT TERUMÀ

«Parla ai figli di Israele e prendano per me una offerta […]» (Shemòt 25;2).

I Maestri si chiedono come mai la Torà adopera il verbo “prendano” e non “diano” visto che si tratta della richiesta di un’offerta da parte divina per costruire il MISHKÀN – Tabernacolo mobile del deserto, proponendo numerose possibilità di risposta:

Il Minchà belulà, testo di esegesi biblica, spiega dicendo che se colui a cui è predisposta l’offerta è un personaggio importante, colui che la offre è considerato colui che la riceve e per questo è detto prendano per Me un’offerta anzichè  diano a Me un’offerta

Il Malbim afferma che se l’espressione diano a Me un’offerta avrebbe implicato che l’opera dell’edificazione del mishkàn si sarebbe retta interamente su una tassa obbligatoria, costringendo il popolo ad elargirla. Prendano per Me un’offerta, come compare sulla Torà, ne sintetizza il carattere assolutamente volontario del contributo, elargito spontaneamente, in base alle proprie possibilità. Per questo motivo il popolo, si sentì in dovere di nominare dei preposti a questa mansione – parnasim o gabbaim, in modo tale che avessero provveduto alla riscossione di tale offerta.

Infine, si ricorda il principio che chiunque faccia tzedakà non vada mai in perdita; egli, infatti, viene ricompensato per tutto quello che spende per adempiere alla mitzvà.

Questo concetto è ribadito più volte dai nostri Maestri, i quali, parlando della tzedakà esprimono un grande concetto che nulla ha a che fare con l’elemosina o addirittura con la carità.

Sia l’elemosina che la carità, pongono su due piani chi la dà e chi la riceve, poiché esiste palesemente un modo esteriore di fare l’elemosina davanti a tutti e soprattutto, riceverla davanti a tutti.

La tzedakà – atto di giustizia, deve esser fatta senza che chi la riceve sappia di chi la fa, ma soprattutto essa non si limita ad essere una elargizione materiale, ma può essere fatta, anche attraverso un gesto morale.

Lo scopo di questa offerta in questione, non era soltanto quello di costruire un Santuario o Tabernacolo mobile – MISHKAN-, nella sua materialità, ma era quello di riuscire nell’intento di tenere il popolo unito.

Il Mishkan prima, il Bet Ha Mikdash poi, sono stati i punti di riferimento di tutto il popolo ebraico, nel corso di molti secoli; quel Luogo che ha fatto sì che il popolo non si spaccasse, ma ritrovasse, attraverso di esso, una convergenza ed una condizione di unicità che lo faceva essere diverso da tutti gli altri popoli della terra.

Il nostro Bet ha Mikdash, quello della nostra era, che ci vede privi di un così grande bene, può essere identificato nella lingua ebraica che accomuna tutto il popolo, sparso in ogni angolo della terra, almeno nei momenti della recitazione della tefillà.

Pochi sono i simboli della nostra tradizione, ma sicuramente il Bet ha Keneset – la Sinagoga e la preghiera che in essa viene recitata, hanno la forza di sostituire il Bet ha Mikdash, se non fisicamente, almeno dal punto di vista della identità del popolo di Israele.

Shabbat shalom,
Chodesh Tov,
Rav Alberto Sermoneta

Parashà MISHPATIM

-Parashà MISHPATIM-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT MISHPATIM

Nella parashà che leggeremo questo shabbat sono riportate tutte quelle che nei Dieci Comandamenti sono chiamate mitzvot ben adam le chaverò (lett. “le regole fra l’uomo e il suo prossimo”).

Esse sono numerosissime e proprio per il loro vasto campo di azione i Maestri del Talmud hanno redatto la maggior parte dei trattati talmudici: Nezikin, Sanhedrin, Maccot, Bavà Kammà, Bavà Mezzi’à, Bavà Batrà ecc., partendo proprio dalle regole presentate nel corso della parashà di Mishpatìm.

Nel commentare i secondi cinque Comandamenti ci si rende conto che essi siano quelli più crudi, in quanto elencati in ordine di gravità dei danni, fisici e morali che un uomo può provocare al suo amico. Alla fine della III chiamata di Mishpatìm troviamo queste parole: «Quando presterai danaro a qualcuno del Mio popolo, al povero che è presso di te, non comportarti con lui come un vessatore e non esigere da lui alcun interesse. Se poi prenderai come pegno da lui la sua coperta, al calare del sole dovrai restituirgliela, poiché in essa consiste la sua unica copertura; è il vestito del suo corpo, con essa si coricherebbe? Quindi se si rivolgesse a Me gridando [di dolore] Io lo ascolterei, poiché Sono misericordioso» (Shemòt 22; 24-26).

Purtroppo più nessuno si preoccupa della sofferenza dell’altro, anzi, si pone verso di essa come se non lo riguardasse affatto, come se per lui fosse una cosa lontana. La mitzvà «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Vayiqrà 19; 18) è espressa in tutta la Torà una sola volta; eppure è considerata dai Maestri, la parte essenziale di essa.

Nel Talmud Bavlì, trattato di Shabbat 31°, troviamo scritto che:

«Hillel il vecchio era il capo del Sinedrio e una volta si presentò a lui uno straniero che voleva convertirsi a condizione che gli avesse insegnato tutta la Torà, nel tempo in cui si resiste astare in piedi su un solo piede. Il grande Maestro gli rispose: “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te! Tutto il resto è commento, va e studia!”[…]».

Rabbì Akivà sosteneva, sempre a proposito di questa mizvà (Amerai il prossimo tuo come te stesso) che questa è la grande regola della Torà. Su di essa poggia tutto il concetto della Torà stessa. Rabbì Shimon figlio di El’azar, sosteneva che essa, fu pronunciata nel momento di un importante giuramento da parte di D-o al popolo: Anì berativ – Io l’ho creato! (l’uomo) Se tu lo amerai e lo rispetterai, Io ti ricompenserò con una grande cosa, viceversa Io ti giudicherò per distruggerti.

Nel Midrash invece viene riportata una supplica da parte del Signore D-o al popolo;

«Il Signore rivolgendosi al popolo disse: “figli miei cosa è che voglio da voi? Io voglio che voi vi amiate e vi rispettiate l’un l’altro. Quali sono le strade del Cielo? Quelle in cui il Signore è misericordioso e usa questo attributo persino con i malvagi, Egli accetta la loro teshuvà e li alimenta abbondantemente come tutte le Sue creature. Così dovete essere voi, che vi amiate l’un l’altro e vi rispettiate l’un l’altro e vi aiutiate nel caso del bisogno l’uno verso l’altro, affinché l’uno possa usare bontà nei confronti del suo prossimo” Così come sono Io!».

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashà Bo

-Parashà Bo-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Con questa parashà la Torà, ci narra tutte le regole inerenti la preparazione che gli ebrei dovevano fare, prima di abbandonare l’Egitto e mentre gli egiziani subivano le ultime tre piaghe, che li rendevano impotenti dinanzi alla forza di D-o distruggendo definitivamente l’apparente divinità del faraone.

Se da una parte il popolo ebraico e il faraone erano presi dal vivere ciò che gli si presentava materialmente: per i primi la vittoria di essere finalmente liberi, dopo 430 anni di schiavitù, per il secondo la definitiva sconfitta davanti alla potenza divina, dall’altra però, entrambi avevano l’opportunità di imparare qualcosa di fondamentale dalle vicissitudini della vita.

Il popolo ebraico riceve l’ordine di imparare da questa esperienza e di trasmetterla ai propri figli; infatti, proprio in questa parashà, riceve l’ordine di dare ai propri figli una educazione ebraica, attraverso l’insegnamento e la trasmissione delle esperienze.

Verso la metà della parashà, troviamo comandato dalla Torà: “E lo narrerai a tuo figlio in quel giorno….”; cioè, quando sarai libero e non avrai da preoccuparti di ciò che è più pesante della tua stessa vita, dovrai dedicarti, come cosa principale all’educazione dei tuoi figli.

Il brano in questione, si conclude con le parole: “…e sarà come segno sul tuo braccio e come frontale fra i tuoi occhi, affinché la Torà del Signore sia nella tua bocca”; la prima parte è abbastanza comprensibile, si parla della mizvà di indossare i tefillin, come strumento di studio e ricordo; vanno indossati sul braccio sinistro in corrispondenza del cuore (organo in cui risiede la coscienza) e sulla fronte, in corrispondenza del cervello (organo in cui risiede il raziocinio).

Tutto ciò, prosegue la Torà “affinché la Torà del Signore sia sulla tua bocca”, cioè la bocca, terzo dei tre elementi che servono a trasmettere l’insegnamento, sia lo strumento di trasmissione.

Nella tradizione ebraica, non basta solo lo studio a fare un buon ebreo; se manca la comprensione di ciò che si fa, non vi è alcun senso nell’osservare le mizvot; viceversa, la comprensione e lo studio non sono sufficienti, se non c’è l’azione.

Quindi, interpretando il testo citato, possiamo dire che l’educazione ebraica è costituita da tre elementi: i primi due materiali – il braccio (azione), il cervello (ragionamento per compiere l’azione) e la bocca per studiare e trasmettere le tradizioni apprese.

Shabbat shalom e chodesh tov,

Rav Alberto Sermoneta

Parashà Vaerà

-Parashà vaerà-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Nella parashà di questa settimana leggeremo le prime sette piaghe che il Signore mandò contro l’Egitto, per convincere il Faraone a liberare il popolo ebraico dalla schiavitù.

C’è da notare una cosa interessante a proposito della prima piaga:

Mosè ed Aronne, si presentano al Faraone per annunciargli che se non avesse liberato il popolo ebraico, il Signore avrebbe tramutato in sangue, il fiume Nilo e tutte le altre sorgenti d’acqua.

La cosa curiosa è che D-o dice a Mosè e ad Aronne di recarsi sul far del mattino dal Faraone, perché sta uscendo dall’acqua, mentre il lettore è abituato ad immaginarsi che i due si fossero presentati al Faraone, nella sala del trono, ad una certa ora del giorno e, magari, al cospetto dei suoi sudditi.

I commentatori si chiedono il motivo di questa visita, di buon mattino, sulle rive del Nilo, quando il Faraone stava uscendo dall’acqua.

A ciò si fa notare che, sia il Nilo, sia il Faraone erano considerati dagli egiziani delle divinità e, come tutte le divinità che si rispettino, non dovevano mai trovarsi, o farsi vedere in atteggiamenti poco ufficiali.

Che cosa faceva il Faraone di buon mattino nel fiume?

Pensandoci bene, il Faraone era un uomo potente e importante, ma pur sempre un uomo, con tutti i suoi bisogni fisici e fisiologici che hanno tutti gli esseri viventi; gli esseri viventi, quelli “comuni” hanno necessità di fare i propri bisogni fisiologici quando si alzano dal letto, prima di andare in ufficio, ma il Faraone era una divinità e per questo non poteva far sapere alla gente “comune” che anche lui aveva le stesse necessità di ogni altro essere vivente mortale.

E’ per questo motivo che il Signore chiede a Mosè e ad Aronne di parlare con lui in un momento per lui particolarmente delicato, facendogli notare, nonostante la sua auto considerazione di divinità che con il Signore, D-o onnipotente, nessuno può competere.

Il Faraone è completamente nudo, ha compiuto i suoi bisogni corporali, non può usare nessun atto di stregoneria o di regalità contro i due, è per ciò che non risponde alla minaccia, ma è costretto a tacere, incassando così la prima sconfitta.

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashà Shemot

-Parashà SHEMOT-

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- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT SHEMOT

Questa settimana leggeremo la prima parashà del secondo sefer della Torà: Shemòt. Dalla traduzione dei Settanta prima e dalla Vulgata poi, il sefer è stato chiamato Exodus o Esodo, poiché nella sua gran parte, racconta gli episodi inerenti la yetziàt Mitzraìm. Shemot in ebraico significa nomi, esattamente quei i nomi dei figli di Giacobbe che scesero in Egitto al tempo in cui loro fratello Giuseppe era viceré.

La prima consonante del primo versetto della parashà è una vav – una congiunzione: «E questi sono i nomi dei figli di Israele […]» (Shemòt 1; 1); a riprova della continuità cronologica che intercorre fra il libro di Bereshìt e quello di Shemòt e ulteriore testimonianza del fatto che tutta la Torà sia stata scritta da un’unica mano e da un unico Autore.

Rashì si chiede come mai, dopo avere elencato i nomi dei figli di Giacobbe alla fine del libro di Bereshit, nel momento in cui essi scendono in Egitto, la Torà torna li rimenzioni ancora una volta all’inizio del nuovo libro. All’interrogativo di Rashì si risponde che il Signore D-o che amava Giacobbe in modo smisurato con i suoi figli, dopo averli menzionati da vivi, cioè nel momento stesso in cui essi scendono in Egitto, vuole tornare a ricordarli anche dopo che erano morti. La particolarità del versetto in questione risiede nel tempo verbale – al presente – con cui il verbo “lavò – venire” è coniugato: «E questi sono i nomi dei figli di Israele che scendono in Egitto […]», quando l’aspettativa del lettore è si scelga almeno una forma passata, trattandosi di avvenimenti molto datati.

La Torà esprime un concetto di base: la conseguenza di un cattivo comportamento è la Diaspora e la Diaspora è sempre in agguato per il figli di Israele – in ogni momento.

Il fatto che il verbo sia stato menzionato al presente ci insegna che in Egitto, in Babilonia, a Roma ecc… gli ebrei sono stati esiliati a causa del loro comportamento che non appartiene al passato, ma può ripetersi in ogni momento della storia.

Un famoso esegeta moderno, sostiene che il motivo della ripetizione dei nomi è dovuta al fatto che per molti anni, da quando scesero in Egitto, gli ebrei si assimilarono alla cultura del luogo, dimenticando lo studio, la loro cultura e le loro tradizioni. Quindi, secondo il Maestro è come se fossero morti; trascorsi molti anni, solo in prossimità della loro futura liberazione, la Torà torna a ricordare i loro nomi e le loro tradizioni.



Shabbat shalom,
Rav Alberto Sermoneta

Parashà VAICHI’

-Parashà Vaichì-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT VAICHI’

In parashat Vaichì che chiude il sefer Bereshìt si racconta della morte di Giacobbe e di tutti gli episodi ad essa connessi, comprese le benedizioni e le profezie che impartisce ai figli e ai nipoti Efraim e Menashè prima di morire. Per ognuno di loro Giacobbe predice il futuro, e le conseguenze del loro agire nel corso del tempo.

Le parole più sconvolgenti, saranno quelli che Giacobbe rivolge ai due figli, Simeone e Levi;

Simeone e Levi sono fratelli, le loro spade sono oggetti di violenza; la mia persona non entri nella loro riunione, non partecipare oh anima mia alla loro assemblea, poiché quando sono adirati uccidono uomini e quando sono calmi sgarrettano i buoi. Maledetta la loro ira che è violenta e il loro furore che è duro; li dividerò in Giacobbe e li sparpaglierò in Israele” (Bereshìt 49; 5-7).

In pochi versetti troviamo le espressioni più dure che Giacobbe abbia mai pronunciato in tutta la sua vita nei confronti dei propri figli, indissolubilmente legate alla vendetta violenta perpetrata da Simeone e Levi contro la popolazione di Shechem, raccontato al capitolo 34 di Bereshìt.

La maledizione di Giacobbe, si estende anche ai tempi molto successivi, in quanto né i discendenti di Simeone né quelli di Levi avranno un territorio in Israele. Mentre la tribù di Levi si riscatterà ai tempi di Mosè, in quanto non prenderà parte al fatto del “vitello d’oro” e si renderà partecipe nel giustiziare coloro che si erano macchiati di quella grave colpa, Simeone verrà totalmente inghiottito da tutto il resto del popolo.

La berakhà che in seguito Mosè rivolgerà a tutto il popolo prima di morire, ha una somiglianza con quella di Giacobbe, in quanto si rivolge a tutte le Tribù, nominandole una ad una, ricordando anche quella di Levi e prendendola come esempio per il suo comportamento e per i suoi sacri incarichi (Cohanim e leviim), ma ometterà totalmente il nome di Simeone.

La parashà si conclude con la profezia che Giuseppe fa in punto di morte, che è quella che il Signore Iddio si ricorderà del Suo popolo, facendolo uscire dall’Egitto, dopo molti anni di schiavitù, verso la Terra che ha giurato di dare in retaggio ad Abramo, Isacco e Giacobbe.

 

Shabbat shalom,
Rav Alberto Sermoneta

Parashà VAIGGASH

-Parashà Vaiggash-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT VAIGGASH

Con la nostra parashà si conclude la prima parte della storia di Josef con i suoi fratelli.
Dopo una lunga discussione che lo vede protagonista assieme al fratello Yehuda, Yosef si fa finalmente riconoscere da tutti i suoi fratelli. La motivazione che egli adduce al fatto che sia in Egitto, non è quella della volontà dei fratelli di disfarsi di lui, quanto quella che tutto appartiene ad un disegno divino, messo in atto per salvare la sua famiglia dai sette anni di carestia.
I disegni divini sono imprevedibili per la mente umana, in quanto possono realizzarsi nei modi e nei tempi più disparati e lontani dalla nostra immaginazione.
La storia di Yaaqov, dei suoi figli, di Yosef con i suoi fratelli ci insegnano che il susseguirsi di eventi simili a sciagure, siano in realtà la manifestazione divina di un percorso ben conosciuto da D-o che lo mette in atto.

«Ha nistarot l’A’ Elohenu Ve ha niglot lanu ulvanenu […] la’asot et col divré ha Torah ha zot» –
«Le cose occulte appartengono al Signore nostro D-o e le manifeste a noi e ai nostri figli per sempre, per mettere in pratica le parole di questa Torà» 
(Devarìm 29;28).

Quando ci rivolgiamo al Signore, chiedendoGli una qualsiasi cosa di cui abbiamo bisogno, ci aspetteremmo una risposta immediata che fosse per noi comprensibile.
Hashem, tuttavia, esaudisce le nostre richieste in modo del tutto imprevedibile, fino a darci la possibilità di comprendere ciò di cui siamo stati beneficiati.
Tutto questo avviene però con un tempo e con delle modalità a noi completamente sconosciute. Questo è ciò che è capitato a Ya’aqov, a Yosef e a tutti i suoi fratelli.
Questo è anche ciò che capita a noi e che prevede da parte nostra un profonda fiducia nell’operato divino e nelle Sue grandi possibilità.

Shabbat Shalom,

Rav Alberto Sermoneta