Shabbat Sheminì

-Shabbat Sheminì-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

                                                   Parashat Sheminì

Nella parashà che leggeremo questo Shabbat, la Torà narra gli eventi dell’ottavo giorno dell’inaugurazione del Mishkàn, culmine di una serie di preparativi che hanno incluso la costruzione del Tabernacolo, la confezione degli abiti sacerdotali e la realizzazione degli strumenti destinati al culto sacrificale, il tutto regolamentato in ogni dettaglio.

L’ottavo giorno (Sheminì) citato nella parashà rappresenta la fase conclusiva della cerimonia di Chanukkat ha-Mizbeach (dedicazione dell’altare), durata dodici giorni, corrispondenti al numero delle tribù di Israele, ognuna delle quali, a turno, ha offerto un sacrificio. Secondo l’insegnamento dei Maestri d’Israele, proprio in questo ottavo giorno – come promesso sin dalla parashà di Terumà – si manifesta la Shekhinà, la Presenza Divina, che discende dal cielo per posarsi sul Mishkàn. A tal proposito, la Torà afferma:

«Un fuoco uscì dalla presenza del Signore e consumò sull’altare l’olocausto e i grassi. Tutto il popolo vide, esultò e si prostrò con il volto a terra» (Vaikrà 9,24).

Ciò che emerge da questo versetto è un principio teologico centrale dell’ebraismo: non è l’uomo ad ascendere al Divino, ma è Dio stesso a scendere verso l’uomo. Una concezione teologica che, ancora oggi, risulta difficile da accogliere per molte confessioni religiose estranee alla tradizione ebraica.

Questo momento segna non solo l’inizio operativo del Mishkàn, ma soprattutto l’instaurarsi di una relazione costante tra il popolo e la Presenza Divina. Gli esegeti colgono un parallelismo significativo tra l’espressione con cui si apre la parashà, “Vayehi bayom ha-sheminì” (“E fu all’ottavo giorno”), e il versetto inaugurale della creazione, “Vayehi erev vayehi boker yom echad” (“E fu sera e fu mattina, un giorno”). Come Dio prende parte attiva nella creazione del mondo, così sceglie volontariamente di manifestarsi nel Mishkàn.

Esiste, quindi, un nesso profondo tra Cielo, Terra e Mishkàn: così come Cielo e Terra sono i testimoni eterni dell’opera della Creazione, il Mishkàn rappresenta la testimonianza tangibile della presenza di Dio nel mondo e dell’alleanza indissolubile tra Dio, la Torà e il popolo d’Israele.

Questo Shabbat, il primo dopo la festività di Pesach, inizieremo la lettura settimanale del trattato mishnico “Pirkè Avot” (Massime dei Padri), che proseguirà per sei settimane, fino alla vigilia di Shavu’ot. Si tratta di un trattato composto da cinque capitoli canonici – più un sesto aggiunto successivamente, noto come Avot de-Rabbi Natan – contenente insegnamenti etici, massime e detti attribuiti ai Maestri delle generazioni tannaitiche.

Il primo capitolo, che leggeremo proprio questo Shabbat, include al suo interno la seguente mishnà (1:4):

«Jose ben Joezer di Zeredà e Jose ben Jochanan di Gerusalemme ricevettero la tradizione dai loro predecessori. Jose ben Joezer diceva: “La tua casa sia un luogo di ritrovo per i sapienti; copriti della polvere dei loro piedi e bevi le loro parole con sete.”»

Questa mishnà sottolinea l’importanza del rispetto verso i Maestri – un concetto che più avanti verrà esteso anche a chi ci ha insegnato una sola lettera – e incoraggia un atteggiamento di umiltà e dedizione nei confronti sia del loro esempio personale, sia del loro insegnamento. Ogni parola e ogni gesto del Maestro può rappresentare una fonte preziosa di crescita culturale e spirituale.

Forse oggi, più che mai, sarebbe necessario riscoprire e riaffermare questi valori fondamentali, in un tempo in cui spesso si è smarrita la percezione del rispetto dovuto a chi ha accumulato esperienza, conoscenza e dedizione al servizio degli altri e della tradizione.

Shabbat Shalom e Chodesh Tov,
Rav Alberto Sermoneta

Shabbat VII° di Pesach

-Shabbbat VII°di Pesach-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

                                      Shabbat VII° di Pesach
YOM HA-EMUNÀ

 

Lo Shabbat che precede la festività di Pèsach è tradizionalmente denominato Shabbat ha-Gadol, “il grande Shabbat”. Secondo la tradizione rabbinica, tale appellativo si riferisce a un grande miracolo che ebbe luogo in quella data: gli Israeliti, ancora schiavi in Egitto, furono istruiti da Dio a prelevare un agnello – considerato una divinità dagli Egiziani – e a tenerlo in casa in vista del sacrificio pasquale. Questo atto, di forte valenza simbolica e religiosa, rappresentò non solo un gesto di ringraziamento verso Dio, ma anche una dimostrazione di coraggio e fedeltà. Era infatti un gesto provocatorio nei confronti della religione egiziana, che esponeva il popolo ebraico al rischio di rappresaglie. Tuttavia, proprio attraverso tale prova si manifestava la loro determinazione nel mantenere la propria identità e nell’aderire senza timore alla volontà divina. Secondo questa interpretazione, lo Shabbat ha-Gadol segnò un momento decisivo di maturazione collettiva, in cui il popolo dimostrò di essere moralmente e spiritualmente pronto alla redenzione.

Il settimo giorno di Pèsach, che ricorre il 21 di Nissan, è associato a un altro momento cruciale del percorso di liberazione: il passaggio del Mar Rosso. In questo giorno si legge la Shirat ha-Yam, il Canto del Mare, espressione liturgica e poetica dell’esultanza e della riconoscenza del popolo per la salvezza ottenuta. I Maestri della tradizione rabbinica definiscono questo giorno Yom ha-Emunà, “il giorno della fede”, a partire dal versetto in Esodo 14,31: «E gli Israeliti credettero nel Signore e in Mosè, suo servo». Questo atto di fede immediatamente precede l’evento profetico del canto, suggerendo, secondo l’insegnamento rabbinico, che la fede autentica costituisca un presupposto necessario per la rivelazione profetica.

La fede, in questo contesto, non è intesa come un’adesione irrazionale, ma come una fiducia profonda che si manifesta anche nei momenti di oscurità e incertezza. Come recita il Salmo 92,3: «Per proclamare al mattino la Tua bontà, e la Tua fedeltà nelle notti», l’atto di credere è particolarmente significativo durante le “notti” dell’anima – ovvero nei momenti più difficili, quando la luce della comprensione razionale viene meno.

La data del 21 di Nissan non è casuale: è infatti il giorno in cui, secondo la tradizione, avvenne l’effettivo attraversamento del Mar Rosso. Quel giorno rappresenta non solo la liberazione fisica del popolo, ma anche la nascita della sua coscienza spirituale, fondata sulla fede. È il compimento della promessa che Dio aveva fatto a Mosè al roveto ardente, quando gli annunciò che il popolo avrebbe creduto sia in Lui che nel suo emissario.

Il versetto conclusivo del capitolo 14 dell’Esodo – «E credettero nel Signore e in Mosè, suo servo» – introduce la Shirà e rivela un principio fondamentale: alla base di una fede collettiva duratura vi è non solo la fiducia in Dio, ma anche quella in se stessi e nei propri leader. La guida spirituale, rappresentata da Mosè, diventa elemento indispensabile per il consolidamento di un’identità nazionale e religiosa. L’assenza di tale fiducia mina le fondamenta stesse della vita collettiva, impedendo la formazione di un popolo unito e degno del nome che gli è stato attribuito: ‘Am Yisrael, il popolo d’Israele.


 

Shabbat shalom e Pesach kasher ve sameach
Rav Alberto Sermoneta

PARASHAT ZAV

-PARASHAT VA IKRA'-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

                                      Shabbat Hagadol PARASHAT ZAV

 

La parashà di zav è la seconda parashà del libro di Vaikrà; come la prima, quella che abbiamo letto lo scorso shabbat, continua ad enumerare i sacrifici che dovevano essere offerti nel Mishkàn. Nel descrivere il mizbeach, l’altare dove venivano bruciati i sacrifici, la Torà insegna qualcosa che, nonostante l’ormai non consueta pratica dei sacrifici, è tuttora il simbolo del nostro popolo. È scritto infatti: «Esh tamid tukad ‘al hamizbeach lo tichbè» – «Un fuoco eterno brucerà sull’altare non lo spegnerai» (Vayiqrà 6; 6). Secondo l’interpretazione letterale tutto fila regolarmente: il fuoco che ardeva sull’altare del Tempio non doveva essere mai spento. Nella Mishnà infatti, vengono descritte le mishmarot – i turni – osservati dai Cohanim per sorvegliare che il fuoco che ardeva sul mizbeach rimanesse sempre acceso. I Maestri ci spiegano che non era un fuoco vivo, ma dei grossi tronchi di legno formavano una sorta di brace ardente, sul quale venivano bruciati i sacrifici, sia animali che farinacei.

Se razionalmente questo ricorda il periodo dei sacrifici, intimamente ci insegna che il fuoco è l’eternità, quella cosa che, se alimentata costantemente non finisce mai. Parimenti, se il popolo ebraico osserverà le leggi della Torà, mettendole in pratica ed insegnandole ai propri figli, tramandando loro le millenarie tradizioni,  esso sarà eterno come il fuoco del mizbeach.

Le tradizioni del nostro popolo hanno la forza di mantenerci in vita, nonostante i molteplici tentativi di annientamenti da parte dei nostri nemici, come noi, da ormai tremila anni circa, facciamo riguardo la storia della schiavitù egiziana, attraverso l’osservanza della festa di Pesach e la lettura della haggadà.

Non a caso la parashà di Zav coincide quasi sempre con il sabato che precede la festa di Pesach, che i nostri Maestri hanno denominato Shabbat ha gadol, non il sabato grande (altrimenti avrebbe dovuto essere shabbat ha ghedolà – perché il termine shabbat è femminile), ma il “Sabato del grande”, ossia del grande evento, che è quello a cui assistettero i nostri padri in Egitto, quando fu comandato loro di prepararsi all’abbandono di quel Paese, mentre i primogeniti egiziani, stavano morendo, colpiti dall’Angelo della morte.

È’ lo Shabbat in cui si trascorre più tempo in siangoga per ascoltare dal Rabbino e studiare tutte le regole che riguardano la preparazione alla festa che sta per entrare.

Una breve spiegazione riguardo l’augurio che a differenza delle altre festività, ci scambiamo prima e durante la festa: “pesach kasher ve sameach – una pesach idonea e gioiosa”. Solitamente per le altre festività ci auguriamo “chag sameach” o “mo’adim le simchà”; per pesach si sottolinea l’osservanza della kasherut. Qualcuno potrebbe chiedersi: “perché durante le altre feste la kasherut è facoltativa?”. La risposta è che la kasherut di Pesach è molto più complessa di quella delle altre festività o addirittura degli altri giorni. Per Pesach è prevista una serie di pulizie della casa, completamente diverse e assai più approfondite di quelle, seppur importanti delle altre festività o occasioni varie.

La trasgressione ai vari divieti che riguardano il cibarsi o possedere il chamez, prevede la pena più rigorosa – il caret – la pena capitale – pena proveniente direttamente da D-o, prevista soltanto per la trasgressione di pochissimi casi (fra cui il cibarsi di chamez a Pesach), considerati gravi, non solo per chi li commette, ma anche per la società che assiste a un simile comportamento.

È per questa ragione che non è sufficiente fare di propria iniziativa, ma è necessaria la collaborazione e le varie spiegazioni di una persona esperta, per non incappare nell’errore, di D-o ne guardi, di trovarsi in possesso di chamez o cosa che possa richiamarne la sua somiglianza, nel periodo della festa. Si usava nell’antichità trascorrere molte ore più del consueto, nelle varie Sinagoghe, durante questo sabato, per ascoltare e chiedere delucidazione ai Maestri, su come comportarsi correttamente nella preparazione alla festa e soprattutto per non commettere errori.

Possa il Signore renderci meritevoli di aver preparato per la festa di Pesach e per aver osservato le sue regole in modo scrupoloso e rigoroso, degni di quelle che furono le vicende che i nostri padri in Egitto vissero, con l’ideale di essere un popolo libero e degno del nome che portiamo: Israel.
 

Shabbat shalom e Pesach kasher ve sameach
Rav Alberto Sermoneta

PARASHAT VA IKRA’

-PARASHAT VA IKRA'-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

                                                 Parashat Va-Ikrà
Con questa parashà inizia il terzo libro della Torà, il libro di Va-ikrà, noto anche come Torat ha-Korbanot (la Legge dei Sacrifici) o Sefer ha-Tarará ve-ha-Kedushà (il libro della purità e della santità).
È interessante notare che nella parola “Va-ikrà”, scritta sul Sefer Torà, l’alef appare molto più piccola rispetto alle altre lettere. Questo, secondo l’opinione dei Maestri, ha molteplici significati.

Il grande maestro cabalista Moshe bar Nachman, noto come Ramba”n, sostiene che questa sia una delle numerose occasioni in cui le lettere, le parole o le loro scritture (a volte complete, a volte mancanti) vengono modificate, dimostrando che la Torà, opera divina, è scritta con una sapienza ed una saggezza che dimostra continuamente..

Infatti, nel momento in cui Dio ha donato la Torà a Mosè, ha voluto evidenziare che ogni dettaglio, anche queste eccezioni lessicali e grammaticali, deve essere oggetto di studio e riflessione per chi si avventura nei suoi sentieri.

Non si tratta, quindi, come sostiene ancora il Nachmanide, di una stranezza, ma di un segno che il Signore ha voluto trasmettere attraverso un messaggio al popolo ebraico, stimolando continuamente la ricerca e lo studio della Torà, in ogni sua parte, come un’opera divina ricca di significati sempre più profondi, che vanno scoperti attraverso l’apprendimento.

Shabbat Shalom,
Rav Alberto Sermoneta

PARASHAT VA YAQHEL

-PARASHAT VA YAQHEL-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

                                   

                                     Shabbat Parà, PARASHAT VA YAQHEL

 

All’inizio della parashà di Va yaqhel viene nuovamente rammentato il dovere dell’osservanza dello Shabbat ed il divieto assoluto della sua profanazione, anche per un’opera sacra come quella della costruzione del Mishkàn. Al verso 3 del capitolo 25 viene impartito il divieto assoluto di accendere il fuoco di Shabbat e la pena per coloro che profanano questa importante mizvà: «[…] non accenderete il fuoco nelle vostre abitazioni nel giorno dello Shabbat».

I Rabbini del Talmud si chiedono che cosa voglia insegnarci questo versetto poiché questa specifica proibizione viene già menzionata nelle parashòt precedenti.

Nel Talmud si riporta: «ha detto Rabby Jehudà, ha detto Rav: “tutti coloro che si deliziano di Shabbat tutte le loro richieste saranno esaudite dal Cielo” in quanto è detto: “ e ti delizierai del Signore ed Egli ripagherà i desideri del tuo cuore” (Tehillìm 37; 4)».

«”Questa ‘delizia’ io non la conosco” – dice Rabby Jehudà – mentre è anche detto: “e chiamerai lo shabbat, ‘delizia’ (Isaia 58 v.13) questa ‘delizia’ è lo Shabbat.

Da qui si deduce che la delizia con cui il Signore ci premierà nel mondo a venire, non è altri che lo Shabbat; secondo ciò che è detto nel Talmud «il mondo a venire – l’olam ha ba – è quel luogo dove ogni giorno sarà per l’eternità, tutto sabato e riposo per l’eternità».

Mentre in questo mondo – l’olam ha zè – l’opinione di Rabby Chijà figlio di Ashì è, che qualsiasi cosa, anche piccola fatta in Suo onore, ci delizierà di Shabbat.

 

Shabbat Shalom,
Rav Alberto Sermoneta

 

Parashà Ki Tissà

-Parashà Ki Tissà-

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- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

                                                

PARASHAT KI TISSA’

La parashà di Ki Tissà comincia con una mizvà molto particolare: censire il popolo ebraico, attraverso l’offerta da parte degli uomini che hanno compiuto il ventesimo anno di età, ovvero quella di offrire mezzo siclo d’argento.

Ciò che ci insegna la Torà è che il popolo di Israele non si può contare, di conseguenza ci viene comandato di portare un oggetto, in modo che si possa contare la somma degli oggetti al posto di chi invece li porta.

Il mezzo siclo invece, rappresenta l’offerta obbligatoria che ogni uomo ebreo deve portare; un’offerta che eguaglia tutti, compresi ricchi e poveri.

La Torà, sottolinea infatti che il ricco non poteva aumentare l’offerta, né il povero poteva diminuirla, nessuno poteva o doveva offrire di sua volontà, ma tutti secondo l’ordine divino.

Alcuni commentatori si chiedono il motivo del mezzo siclo e perché non uno intero; a questa domanda si risponde dicendo che, in mezzo al popolo ebraico non esiste uomo o donna che non abbia bisogno del suo prossimo:

Ognuno deve pensare di avere qualcuno vicino che, nel momento del bisogno possa sostenerlo.

Ogni ebreo è dipendente da suo fratello e ne è responsabile delle sue azioni; non ci si può alienare da questa sorte, da questo destino:

Israel arevim ze la ze – ogni ebreo è garante dell’altro, insegnano i nostri maestri, esortandoci a vivere una vita sociale ebraica degna del nome che portiamo e del popolo a cui facciamo parte.

Ognuno ha una grossa responsabilità nei confronti del suo prossimo, ma soprattutto nei confronti del suo popolo, tenendo sempre bene a mente che se D-o ne guardi, accada qualcosa al proprio popolo, deve guardare nel suo intimo se qualcosa è stato fatto di male.

Tutto ciò è quello che accadde, nell’episodio narrato sempre nella parashà in questione, del vitello d’oro, in cui una piccola parte del popolo, chiese di costruire un idolo per poi fare atti di adorazione, la colpa ricadde su tutto il popolo, anche su chi invece si era mantenuto legato alla sua tradizione.

Soltanto nel momento in cui avviene una teshuvà collettiva e seria, si può pensare di recuperare il rapporto con la divinità, con se stessi e quindi anche cercare di intercedere, come fece Mosè per il popolo di Israele, verso il Signore Iddio, fino ad ottenere il perdono.

Shabbat shalom

Alberto Sermoneta

Parashà Tetzavè

-Parashà ZACHOR TETZAVè-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

                                                 SHABBAT ZAKHOR 
E’ lo Shabbat che precede la festa di Purim, in cui si celebra lo sforzo che la regina Ester fece per scongiurare il pericolo di Aman l’Agaghita – discendente di Amalek – che minacciava di sterminare tutte le comunità ebraiche del vasto regno di Assuero. Anche nella storia di Purim c’è il gioco di nascondere la propria faccia – la propria identità: Adassà che non dice di essere ebrea e nascondendo la propria realtà si fa chiamare Ester che vuol dire nascosto; D-o stesso nasconde la propria faccia al suo popolo, provocandogli un grosso spavento, fintanto che tutti non si ravvedono e si rivolgono a Lui, implorandogli il perdono.

A volte, anche chi è particolarmente famoso, ha bisogno di restare dietro le quinte, per far spazio agli altri e rendersi conto di come essi se la cavano ad affrontare situazioni difficili. Aaron doveva diventare la massima carica spirituale del popolo, così suo figlio che lo avrebbe, di li a poco sostituito: non poteva sempre essere guidato in ogni passo da Moshè! Così Adassà – Ester, che doveva essere regina ed essere quindi la rappresentanza e l’orgoglio del suo popolo – una minoranza – doveva dimostrare di essere all’altezza di gestire una situazione pericolosa.

Hashem si fa da parte, resta dietro le quinte, per far spazio a costoro, per assistere passivamente a ciò che accade; ma come un buon genitore è però sempre pronto ad intervenire a Suo modo, per salvare il popolo ebraico da intromissioni esterne.

 

Shabbat Shalom e Chag Purim sameach
Rav Alberto Sermoneta

 
Un cordiale Shalom

Parashà TERUMA’

-Parashà TERUMA'-

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- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT TERUMÀ

«Parla ai figli di Israele e prendano per me una offerta […]» (Shemòt 25;2).

I Maestri si chiedono come mai la Torà adopera il verbo “prendano” e non “diano” visto che si tratta della richiesta di un’offerta da parte divina per costruire il MISHKÀN – Tabernacolo mobile del deserto, proponendo numerose possibilità di risposta:

Il Minchà belulà, testo di esegesi biblica, spiega dicendo che se colui a cui è predisposta l’offerta è un personaggio importante, colui che la offre è considerato colui che la riceve e per questo è detto prendano per Me un’offerta anzichè  diano a Me un’offerta

Il Malbim afferma che se l’espressione diano a Me un’offerta avrebbe implicato che l’opera dell’edificazione del mishkàn si sarebbe retta interamente su una tassa obbligatoria, costringendo il popolo ad elargirla. Prendano per Me un’offerta, come compare sulla Torà, ne sintetizza il carattere assolutamente volontario del contributo, elargito spontaneamente, in base alle proprie possibilità. Per questo motivo il popolo, si sentì in dovere di nominare dei preposti a questa mansione – parnasim o gabbaim, in modo tale che avessero provveduto alla riscossione di tale offerta.

Infine, si ricorda il principio che chiunque faccia tzedakà non vada mai in perdita; egli, infatti, viene ricompensato per tutto quello che spende per adempiere alla mitzvà.

Questo concetto è ribadito più volte dai nostri Maestri, i quali, parlando della tzedakà esprimono un grande concetto che nulla ha a che fare con l’elemosina o addirittura con la carità.

Sia l’elemosina che la carità, pongono su due piani chi la dà e chi la riceve, poiché esiste palesemente un modo esteriore di fare l’elemosina davanti a tutti e soprattutto, riceverla davanti a tutti.

La tzedakà – atto di giustizia, deve esser fatta senza che chi la riceve sappia di chi la fa, ma soprattutto essa non si limita ad essere una elargizione materiale, ma può essere fatta, anche attraverso un gesto morale.

Lo scopo di questa offerta in questione, non era soltanto quello di costruire un Santuario o Tabernacolo mobile – MISHKAN-, nella sua materialità, ma era quello di riuscire nell’intento di tenere il popolo unito.

Il Mishkan prima, il Bet Ha Mikdash poi, sono stati i punti di riferimento di tutto il popolo ebraico, nel corso di molti secoli; quel Luogo che ha fatto sì che il popolo non si spaccasse, ma ritrovasse, attraverso di esso, una convergenza ed una condizione di unicità che lo faceva essere diverso da tutti gli altri popoli della terra.

Il nostro Bet ha Mikdash, quello della nostra era, che ci vede privi di un così grande bene, può essere identificato nella lingua ebraica che accomuna tutto il popolo, sparso in ogni angolo della terra, almeno nei momenti della recitazione della tefillà.

Pochi sono i simboli della nostra tradizione, ma sicuramente il Bet ha Keneset – la Sinagoga e la preghiera che in essa viene recitata, hanno la forza di sostituire il Bet ha Mikdash, se non fisicamente, almeno dal punto di vista della identità del popolo di Israele.

Shabbat shalom,
Chodesh Tov,
Rav Alberto Sermoneta

Parashà MISHPATIM

-Parashà MISHPATIM-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT MISHPATIM

Nella parashà che leggeremo questo shabbat sono riportate tutte quelle che nei Dieci Comandamenti sono chiamate mitzvot ben adam le chaverò (lett. “le regole fra l’uomo e il suo prossimo”).

Esse sono numerosissime e proprio per il loro vasto campo di azione i Maestri del Talmud hanno redatto la maggior parte dei trattati talmudici: Nezikin, Sanhedrin, Maccot, Bavà Kammà, Bavà Mezzi’à, Bavà Batrà ecc., partendo proprio dalle regole presentate nel corso della parashà di Mishpatìm.

Nel commentare i secondi cinque Comandamenti ci si rende conto che essi siano quelli più crudi, in quanto elencati in ordine di gravità dei danni, fisici e morali che un uomo può provocare al suo amico. Alla fine della III chiamata di Mishpatìm troviamo queste parole: «Quando presterai danaro a qualcuno del Mio popolo, al povero che è presso di te, non comportarti con lui come un vessatore e non esigere da lui alcun interesse. Se poi prenderai come pegno da lui la sua coperta, al calare del sole dovrai restituirgliela, poiché in essa consiste la sua unica copertura; è il vestito del suo corpo, con essa si coricherebbe? Quindi se si rivolgesse a Me gridando [di dolore] Io lo ascolterei, poiché Sono misericordioso» (Shemòt 22; 24-26).

Purtroppo più nessuno si preoccupa della sofferenza dell’altro, anzi, si pone verso di essa come se non lo riguardasse affatto, come se per lui fosse una cosa lontana. La mitzvà «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Vayiqrà 19; 18) è espressa in tutta la Torà una sola volta; eppure è considerata dai Maestri, la parte essenziale di essa.

Nel Talmud Bavlì, trattato di Shabbat 31°, troviamo scritto che:

«Hillel il vecchio era il capo del Sinedrio e una volta si presentò a lui uno straniero che voleva convertirsi a condizione che gli avesse insegnato tutta la Torà, nel tempo in cui si resiste astare in piedi su un solo piede. Il grande Maestro gli rispose: “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te! Tutto il resto è commento, va e studia!”[…]».

Rabbì Akivà sosteneva, sempre a proposito di questa mizvà (Amerai il prossimo tuo come te stesso) che questa è la grande regola della Torà. Su di essa poggia tutto il concetto della Torà stessa. Rabbì Shimon figlio di El’azar, sosteneva che essa, fu pronunciata nel momento di un importante giuramento da parte di D-o al popolo: Anì berativ – Io l’ho creato! (l’uomo) Se tu lo amerai e lo rispetterai, Io ti ricompenserò con una grande cosa, viceversa Io ti giudicherò per distruggerti.

Nel Midrash invece viene riportata una supplica da parte del Signore D-o al popolo;

«Il Signore rivolgendosi al popolo disse: “figli miei cosa è che voglio da voi? Io voglio che voi vi amiate e vi rispettiate l’un l’altro. Quali sono le strade del Cielo? Quelle in cui il Signore è misericordioso e usa questo attributo persino con i malvagi, Egli accetta la loro teshuvà e li alimenta abbondantemente come tutte le Sue creature. Così dovete essere voi, che vi amiate l’un l’altro e vi rispettiate l’un l’altro e vi aiutiate nel caso del bisogno l’uno verso l’altro, affinché l’uno possa usare bontà nei confronti del suo prossimo” Così come sono Io!».

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashà Bo

-Parashà Bo-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Con questa parashà la Torà, ci narra tutte le regole inerenti la preparazione che gli ebrei dovevano fare, prima di abbandonare l’Egitto e mentre gli egiziani subivano le ultime tre piaghe, che li rendevano impotenti dinanzi alla forza di D-o distruggendo definitivamente l’apparente divinità del faraone.

Se da una parte il popolo ebraico e il faraone erano presi dal vivere ciò che gli si presentava materialmente: per i primi la vittoria di essere finalmente liberi, dopo 430 anni di schiavitù, per il secondo la definitiva sconfitta davanti alla potenza divina, dall’altra però, entrambi avevano l’opportunità di imparare qualcosa di fondamentale dalle vicissitudini della vita.

Il popolo ebraico riceve l’ordine di imparare da questa esperienza e di trasmetterla ai propri figli; infatti, proprio in questa parashà, riceve l’ordine di dare ai propri figli una educazione ebraica, attraverso l’insegnamento e la trasmissione delle esperienze.

Verso la metà della parashà, troviamo comandato dalla Torà: “E lo narrerai a tuo figlio in quel giorno….”; cioè, quando sarai libero e non avrai da preoccuparti di ciò che è più pesante della tua stessa vita, dovrai dedicarti, come cosa principale all’educazione dei tuoi figli.

Il brano in questione, si conclude con le parole: “…e sarà come segno sul tuo braccio e come frontale fra i tuoi occhi, affinché la Torà del Signore sia nella tua bocca”; la prima parte è abbastanza comprensibile, si parla della mizvà di indossare i tefillin, come strumento di studio e ricordo; vanno indossati sul braccio sinistro in corrispondenza del cuore (organo in cui risiede la coscienza) e sulla fronte, in corrispondenza del cervello (organo in cui risiede il raziocinio).

Tutto ciò, prosegue la Torà “affinché la Torà del Signore sia sulla tua bocca”, cioè la bocca, terzo dei tre elementi che servono a trasmettere l’insegnamento, sia lo strumento di trasmissione.

Nella tradizione ebraica, non basta solo lo studio a fare un buon ebreo; se manca la comprensione di ciò che si fa, non vi è alcun senso nell’osservare le mizvot; viceversa, la comprensione e lo studio non sono sufficienti, se non c’è l’azione.

Quindi, interpretando il testo citato, possiamo dire che l’educazione ebraica è costituita da tre elementi: i primi due materiali – il braccio (azione), il cervello (ragionamento per compiere l’azione) e la bocca per studiare e trasmettere le tradizioni apprese.

Shabbat shalom e chodesh tov,

Rav Alberto Sermoneta