Parashà MISHPATIM

-Parashà MISHPATIM-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT MISHPATIM

Nella parashà che leggeremo questo shabbat sono riportate tutte quelle che nei Dieci Comandamenti sono chiamate mitzvot ben adam le chaverò (lett. “le regole fra l’uomo e il suo prossimo”).

Esse sono numerosissime e proprio per il loro vasto campo di azione i Maestri del Talmud hanno redatto la maggior parte dei trattati talmudici: Nezikin, Sanhedrin, Maccot, Bavà Kammà, Bavà Mezzi’à, Bavà Batrà ecc., partendo proprio dalle regole presentate nel corso della parashà di Mishpatìm.

Nel commentare i secondi cinque Comandamenti ci si rende conto che essi siano quelli più crudi, in quanto elencati in ordine di gravità dei danni, fisici e morali che un uomo può provocare al suo amico. Alla fine della III chiamata di Mishpatìm troviamo queste parole: «Quando presterai danaro a qualcuno del Mio popolo, al povero che è presso di te, non comportarti con lui come un vessatore e non esigere da lui alcun interesse. Se poi prenderai come pegno da lui la sua coperta, al calare del sole dovrai restituirgliela, poiché in essa consiste la sua unica copertura; è il vestito del suo corpo, con essa si coricherebbe? Quindi se si rivolgesse a Me gridando [di dolore] Io lo ascolterei, poiché Sono misericordioso» (Shemòt 22; 24-26).

Purtroppo più nessuno si preoccupa della sofferenza dell’altro, anzi, si pone verso di essa come se non lo riguardasse affatto, come se per lui fosse una cosa lontana. La mitzvà «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Vayiqrà 19; 18) è espressa in tutta la Torà una sola volta; eppure è considerata dai Maestri, la parte essenziale di essa.

Nel Talmud Bavlì, trattato di Shabbat 31°, troviamo scritto che:

«Hillel il vecchio era il capo del Sinedrio e una volta si presentò a lui uno straniero che voleva convertirsi a condizione che gli avesse insegnato tutta la Torà, nel tempo in cui si resiste astare in piedi su un solo piede. Il grande Maestro gli rispose: “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te! Tutto il resto è commento, va e studia!”[…]».

Rabbì Akivà sosteneva, sempre a proposito di questa mizvà (Amerai il prossimo tuo come te stesso) che questa è la grande regola della Torà. Su di essa poggia tutto il concetto della Torà stessa. Rabbì Shimon figlio di El’azar, sosteneva che essa, fu pronunciata nel momento di un importante giuramento da parte di D-o al popolo: Anì berativ – Io l’ho creato! (l’uomo) Se tu lo amerai e lo rispetterai, Io ti ricompenserò con una grande cosa, viceversa Io ti giudicherò per distruggerti.

Nel Midrash invece viene riportata una supplica da parte del Signore D-o al popolo;

«Il Signore rivolgendosi al popolo disse: “figli miei cosa è che voglio da voi? Io voglio che voi vi amiate e vi rispettiate l’un l’altro. Quali sono le strade del Cielo? Quelle in cui il Signore è misericordioso e usa questo attributo persino con i malvagi, Egli accetta la loro teshuvà e li alimenta abbondantemente come tutte le Sue creature. Così dovete essere voi, che vi amiate l’un l’altro e vi rispettiate l’un l’altro e vi aiutiate nel caso del bisogno l’uno verso l’altro, affinché l’uno possa usare bontà nei confronti del suo prossimo” Così come sono Io!».

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashà Bo

-Parashà Bo-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Con questa parashà la Torà, ci narra tutte le regole inerenti la preparazione che gli ebrei dovevano fare, prima di abbandonare l’Egitto e mentre gli egiziani subivano le ultime tre piaghe, che li rendevano impotenti dinanzi alla forza di D-o distruggendo definitivamente l’apparente divinità del faraone.

Se da una parte il popolo ebraico e il faraone erano presi dal vivere ciò che gli si presentava materialmente: per i primi la vittoria di essere finalmente liberi, dopo 430 anni di schiavitù, per il secondo la definitiva sconfitta davanti alla potenza divina, dall’altra però, entrambi avevano l’opportunità di imparare qualcosa di fondamentale dalle vicissitudini della vita.

Il popolo ebraico riceve l’ordine di imparare da questa esperienza e di trasmetterla ai propri figli; infatti, proprio in questa parashà, riceve l’ordine di dare ai propri figli una educazione ebraica, attraverso l’insegnamento e la trasmissione delle esperienze.

Verso la metà della parashà, troviamo comandato dalla Torà: “E lo narrerai a tuo figlio in quel giorno….”; cioè, quando sarai libero e non avrai da preoccuparti di ciò che è più pesante della tua stessa vita, dovrai dedicarti, come cosa principale all’educazione dei tuoi figli.

Il brano in questione, si conclude con le parole: “…e sarà come segno sul tuo braccio e come frontale fra i tuoi occhi, affinché la Torà del Signore sia nella tua bocca”; la prima parte è abbastanza comprensibile, si parla della mizvà di indossare i tefillin, come strumento di studio e ricordo; vanno indossati sul braccio sinistro in corrispondenza del cuore (organo in cui risiede la coscienza) e sulla fronte, in corrispondenza del cervello (organo in cui risiede il raziocinio).

Tutto ciò, prosegue la Torà “affinché la Torà del Signore sia sulla tua bocca”, cioè la bocca, terzo dei tre elementi che servono a trasmettere l’insegnamento, sia lo strumento di trasmissione.

Nella tradizione ebraica, non basta solo lo studio a fare un buon ebreo; se manca la comprensione di ciò che si fa, non vi è alcun senso nell’osservare le mizvot; viceversa, la comprensione e lo studio non sono sufficienti, se non c’è l’azione.

Quindi, interpretando il testo citato, possiamo dire che l’educazione ebraica è costituita da tre elementi: i primi due materiali – il braccio (azione), il cervello (ragionamento per compiere l’azione) e la bocca per studiare e trasmettere le tradizioni apprese.

Shabbat shalom e chodesh tov,

Rav Alberto Sermoneta

Parashà Vaerà

-Parashà vaerà-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Nella parashà di questa settimana leggeremo le prime sette piaghe che il Signore mandò contro l’Egitto, per convincere il Faraone a liberare il popolo ebraico dalla schiavitù.

C’è da notare una cosa interessante a proposito della prima piaga:

Mosè ed Aronne, si presentano al Faraone per annunciargli che se non avesse liberato il popolo ebraico, il Signore avrebbe tramutato in sangue, il fiume Nilo e tutte le altre sorgenti d’acqua.

La cosa curiosa è che D-o dice a Mosè e ad Aronne di recarsi sul far del mattino dal Faraone, perché sta uscendo dall’acqua, mentre il lettore è abituato ad immaginarsi che i due si fossero presentati al Faraone, nella sala del trono, ad una certa ora del giorno e, magari, al cospetto dei suoi sudditi.

I commentatori si chiedono il motivo di questa visita, di buon mattino, sulle rive del Nilo, quando il Faraone stava uscendo dall’acqua.

A ciò si fa notare che, sia il Nilo, sia il Faraone erano considerati dagli egiziani delle divinità e, come tutte le divinità che si rispettino, non dovevano mai trovarsi, o farsi vedere in atteggiamenti poco ufficiali.

Che cosa faceva il Faraone di buon mattino nel fiume?

Pensandoci bene, il Faraone era un uomo potente e importante, ma pur sempre un uomo, con tutti i suoi bisogni fisici e fisiologici che hanno tutti gli esseri viventi; gli esseri viventi, quelli “comuni” hanno necessità di fare i propri bisogni fisiologici quando si alzano dal letto, prima di andare in ufficio, ma il Faraone era una divinità e per questo non poteva far sapere alla gente “comune” che anche lui aveva le stesse necessità di ogni altro essere vivente mortale.

E’ per questo motivo che il Signore chiede a Mosè e ad Aronne di parlare con lui in un momento per lui particolarmente delicato, facendogli notare, nonostante la sua auto considerazione di divinità che con il Signore, D-o onnipotente, nessuno può competere.

Il Faraone è completamente nudo, ha compiuto i suoi bisogni corporali, non può usare nessun atto di stregoneria o di regalità contro i due, è per ciò che non risponde alla minaccia, ma è costretto a tacere, incassando così la prima sconfitta.

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashà Shemot

-Parashà SHEMOT-

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- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT SHEMOT

Questa settimana leggeremo la prima parashà del secondo sefer della Torà: Shemòt. Dalla traduzione dei Settanta prima e dalla Vulgata poi, il sefer è stato chiamato Exodus o Esodo, poiché nella sua gran parte, racconta gli episodi inerenti la yetziàt Mitzraìm. Shemot in ebraico significa nomi, esattamente quei i nomi dei figli di Giacobbe che scesero in Egitto al tempo in cui loro fratello Giuseppe era viceré.

La prima consonante del primo versetto della parashà è una vav – una congiunzione: «E questi sono i nomi dei figli di Israele […]» (Shemòt 1; 1); a riprova della continuità cronologica che intercorre fra il libro di Bereshìt e quello di Shemòt e ulteriore testimonianza del fatto che tutta la Torà sia stata scritta da un’unica mano e da un unico Autore.

Rashì si chiede come mai, dopo avere elencato i nomi dei figli di Giacobbe alla fine del libro di Bereshit, nel momento in cui essi scendono in Egitto, la Torà torna li rimenzioni ancora una volta all’inizio del nuovo libro. All’interrogativo di Rashì si risponde che il Signore D-o che amava Giacobbe in modo smisurato con i suoi figli, dopo averli menzionati da vivi, cioè nel momento stesso in cui essi scendono in Egitto, vuole tornare a ricordarli anche dopo che erano morti. La particolarità del versetto in questione risiede nel tempo verbale – al presente – con cui il verbo “lavò – venire” è coniugato: «E questi sono i nomi dei figli di Israele che scendono in Egitto […]», quando l’aspettativa del lettore è si scelga almeno una forma passata, trattandosi di avvenimenti molto datati.

La Torà esprime un concetto di base: la conseguenza di un cattivo comportamento è la Diaspora e la Diaspora è sempre in agguato per il figli di Israele – in ogni momento.

Il fatto che il verbo sia stato menzionato al presente ci insegna che in Egitto, in Babilonia, a Roma ecc… gli ebrei sono stati esiliati a causa del loro comportamento che non appartiene al passato, ma può ripetersi in ogni momento della storia.

Un famoso esegeta moderno, sostiene che il motivo della ripetizione dei nomi è dovuta al fatto che per molti anni, da quando scesero in Egitto, gli ebrei si assimilarono alla cultura del luogo, dimenticando lo studio, la loro cultura e le loro tradizioni. Quindi, secondo il Maestro è come se fossero morti; trascorsi molti anni, solo in prossimità della loro futura liberazione, la Torà torna a ricordare i loro nomi e le loro tradizioni.



Shabbat shalom,
Rav Alberto Sermoneta

Parashà VAICHI’

-Parashà Vaichì-

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- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT VAICHI’

In parashat Vaichì che chiude il sefer Bereshìt si racconta della morte di Giacobbe e di tutti gli episodi ad essa connessi, comprese le benedizioni e le profezie che impartisce ai figli e ai nipoti Efraim e Menashè prima di morire. Per ognuno di loro Giacobbe predice il futuro, e le conseguenze del loro agire nel corso del tempo.

Le parole più sconvolgenti, saranno quelli che Giacobbe rivolge ai due figli, Simeone e Levi;

Simeone e Levi sono fratelli, le loro spade sono oggetti di violenza; la mia persona non entri nella loro riunione, non partecipare oh anima mia alla loro assemblea, poiché quando sono adirati uccidono uomini e quando sono calmi sgarrettano i buoi. Maledetta la loro ira che è violenta e il loro furore che è duro; li dividerò in Giacobbe e li sparpaglierò in Israele” (Bereshìt 49; 5-7).

In pochi versetti troviamo le espressioni più dure che Giacobbe abbia mai pronunciato in tutta la sua vita nei confronti dei propri figli, indissolubilmente legate alla vendetta violenta perpetrata da Simeone e Levi contro la popolazione di Shechem, raccontato al capitolo 34 di Bereshìt.

La maledizione di Giacobbe, si estende anche ai tempi molto successivi, in quanto né i discendenti di Simeone né quelli di Levi avranno un territorio in Israele. Mentre la tribù di Levi si riscatterà ai tempi di Mosè, in quanto non prenderà parte al fatto del “vitello d’oro” e si renderà partecipe nel giustiziare coloro che si erano macchiati di quella grave colpa, Simeone verrà totalmente inghiottito da tutto il resto del popolo.

La berakhà che in seguito Mosè rivolgerà a tutto il popolo prima di morire, ha una somiglianza con quella di Giacobbe, in quanto si rivolge a tutte le Tribù, nominandole una ad una, ricordando anche quella di Levi e prendendola come esempio per il suo comportamento e per i suoi sacri incarichi (Cohanim e leviim), ma ometterà totalmente il nome di Simeone.

La parashà si conclude con la profezia che Giuseppe fa in punto di morte, che è quella che il Signore Iddio si ricorderà del Suo popolo, facendolo uscire dall’Egitto, dopo molti anni di schiavitù, verso la Terra che ha giurato di dare in retaggio ad Abramo, Isacco e Giacobbe.

 

Shabbat shalom,
Rav Alberto Sermoneta

Parashà VAIGGASH

-Parashà Vaiggash-

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- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT VAIGGASH

Con la nostra parashà si conclude la prima parte della storia di Josef con i suoi fratelli.
Dopo una lunga discussione che lo vede protagonista assieme al fratello Yehuda, Yosef si fa finalmente riconoscere da tutti i suoi fratelli. La motivazione che egli adduce al fatto che sia in Egitto, non è quella della volontà dei fratelli di disfarsi di lui, quanto quella che tutto appartiene ad un disegno divino, messo in atto per salvare la sua famiglia dai sette anni di carestia.
I disegni divini sono imprevedibili per la mente umana, in quanto possono realizzarsi nei modi e nei tempi più disparati e lontani dalla nostra immaginazione.
La storia di Yaaqov, dei suoi figli, di Yosef con i suoi fratelli ci insegnano che il susseguirsi di eventi simili a sciagure, siano in realtà la manifestazione divina di un percorso ben conosciuto da D-o che lo mette in atto.

«Ha nistarot l’A’ Elohenu Ve ha niglot lanu ulvanenu […] la’asot et col divré ha Torah ha zot» –
«Le cose occulte appartengono al Signore nostro D-o e le manifeste a noi e ai nostri figli per sempre, per mettere in pratica le parole di questa Torà» 
(Devarìm 29;28).

Quando ci rivolgiamo al Signore, chiedendoGli una qualsiasi cosa di cui abbiamo bisogno, ci aspetteremmo una risposta immediata che fosse per noi comprensibile.
Hashem, tuttavia, esaudisce le nostre richieste in modo del tutto imprevedibile, fino a darci la possibilità di comprendere ciò di cui siamo stati beneficiati.
Tutto questo avviene però con un tempo e con delle modalità a noi completamente sconosciute. Questo è ciò che è capitato a Ya’aqov, a Yosef e a tutti i suoi fratelli.
Questo è anche ciò che capita a noi e che prevede da parte nostra un profonda fiducia nell’operato divino e nelle Sue grandi possibilità.

Shabbat Shalom,

Rav Alberto Sermoneta

Parashà MIKKETZ

-Parashà MIKKETZ-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT MIKKETZ

In Mikketz troviamo le vicende di Giuseppe in Egitto, il quale, attraverso la sua fiducia in D-o e il suo comportamento integerrimo, verrà affrancato dalla schiavitù diventando viceré del paese.

«[…] Elo-him ja’anè et shelom par’ò»
«[…] il Signore risponderà in modo da incutere pace nel faraone»
(Bereshìt 41; 16); è questa la modalità espressiva utilizzata da Josef al cospetto del faraone, considerato dagli egiziani stessi una divinità in terra. Risalta così il suo essere uno zaddik – un giusto, in quanto nonostante il culto del faraone, Josef non nasconderà mai la propria identità ebraica.

Così avvenne, secoli dopo, con i Maccabìm, che combatterono contro i Greci proprio per non dover nascondere la propria identità. Il pericolo per gli ebrei è sempre in agguato e non sta nel fatto che qualcuno tenti di sterminarci, ma fra noi stessi nel momento in cui, per timore che accada qualcosa di male, nascondiamo le nostre origini rinnegando le nostre tradizioni.

La cultura ellenica, opprimeva gli ebrei tentando di farli allontanare dalle tradizioni più forti, come quelle dell’osservanza dello Shabbat, patto eterno fra D-o e il popolo ebraico dal punto di vista spirituale, della Circoncisione, patto eterno fra D-o e gli ebrei dal punto di vista fisico – berit she chatam bivsarenu – patto impresso nella nostra carne e la celebrazione del rosh chodesh – capo mese in cui gli ebrei affermano il loro rinnovamento come identità di popolo attraverso il conteggio del calendario, dando quindi un valore fondamentale alla scansione del tempo.

Non a caso durante gli otto giorni di Chanuccà si ribadiscono tutti questi concetti:

  • la festa dura otto giorni, come i giorni che si contano dalla nascita di un figlio maschio al giorno della circoncisione;
  • durante questi otto giorni vi è all’interno di essi, almeno uno shabbat e,
  • unica “eccezione” del calendario ebraico, è l’unica ricorrenza in cui celebriamo, oltre alla festa, anche due giorni di Rosh Chodesh (Tevèt).

La festa di Chanuccà viene celebrata attraverso l’accensione dei lumi, che simboleggiano l’eternità: il fuoco se viene costantemente alimentato, non si spegne mai così come il popolo ebraico, se osserverà le regole della Torà, mantenendosi saldamente legato alle proprie tradizioni, non cesserà mai di esistere, a discapito di tutti coloro che nel corso dei millenni hanno sempre tentato di annientarci e cancellarci dalla faccia della terra.
 

Shabbat shalom,
Chodesh tov e Chag ha-urìm sameach,
Rav Alberto Sermoneta

1° Incontro del ciclo Israele oggi con Gad Lerner

- 1° INCONTRO DEL CICLO 'ISRAELE OGGI'-

Venezia Ebraica - Jewish Venice

Domenica 15 dicembre, in una Sala Montefiore gremita, ha preso il via il ciclo di quattro incontri intitolato Israele oggi, durante il quale ascolteremo posizioni diverse di esperti e storici, sull’ attuale situazione in Israele.
 
Nel corso della prima conversazione Gad Lerner ha dialogato con lo storico Giovanni Levi, esponendo le proprie visioni, anche nei confronti della storia recente e dell’attualità politica israeliana, non nascondendo un velato ottimismo che la drammaticità del momento storico attraversato da Israele possa risolversi, rapidamente, con un colpo di scena inaspettato.
 
I prossimi tre appuntamenti, vedranno intervenire in Comunità la storica Anna Foa, il direttore de Il Foglio Claudio Cerasa, e il giornalista e conduttore televisivo David Parenzo. Eventuali interessati a partecipare in presenza potranno contattarci all’indirizzo email: cultura@jvenice.org.
 
A febbraio, invece, intervisteremo con rav Alberto Sermoneta lo scrittore e giornalista Aldo Cazzullo, in una conversazione su prospettive testuali riguardanti la Bibbia, oggetto del suo ultimo lavoro.

Parashat Ki tavò

- Parashat Ki Tavo' -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

La parashà di Ki tavò contiene ammonimenti duri e secchi  che i nostri Maestri hanno rinominato con il termine kelalot – “maledizioni”.

«Ve hajà ki tavò el ha aretz»
«E avverrà, quando giungerai sulla terra […]» (Devarìm 26;1).


Rash”ì sostiene che in qualsiasi occasione in cui il testo inizia con la parola ve hajà il suo seguito sarà sicuramente positivo.
Cioè l’inizio di un racconto con la parola ve hajà è sintomo di lieto fine, mentre quando il racconto inizia con la parola va jehì – (lett. “e fu”), il fine o perlomeno il contesto del racconto, non sarà tanto lieto.
Allora, sostengono i Maestri, perché essa contiene le kelalot?
Per comprendere la risposta, bisogna fare un salto indietro fino al libro di Vaikrà: nella parashà di Bechuccotai (Vaikrà 26; 14 – 45) è contenuto un brano simile a quello in causa, ma in forma più leggera, tanto che i Maestri lo hanno chiamato tokhachot (lett. “ammonimenti”).
Alcuni commentatori, al fine di distinguerli, li hanno denominati: tokhachà ketannà (piccolo ammonimento, in riferimento al passaggio di Vaikrà), mentre quello di Devarìm è stato chiamato tokhachà ghedolà (lett. “grande ammonizione”), caratterizzato, cioè, da una forma più severa e cruda.
Come possiamo dunque conciliare l’argomentazione di Rash”i circa la paralo ve hajà?
Soltanto chi ha la forza e l’onestà di ammonire, anche in modo duro,  riesce a far capire quanto affetto nutre per qualcuno.
Un proverbio ebraico italiano suona con le parole: «chi ti vuol bene ti fa piangere e chi ti vuol male ti fa ridere […]».

Il Signore Iddio ama il popolo di Israele e per questo lo mette in guardia per il suo comportamento.

 

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashat Devarìm

- Parashat devarim -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Questo Shabbat inizieremo la lettura del quinto ed ultimo sefer della Torà, conosciuto anche come Mishnè Torà poiché in esso vengono riassunte le parti fondamentali della vita del popolo durante i quaranta anni di permanenza nel deserto.
Il libro contiene i discorsi ammonitivi che Mosè rivolge al popolo prima di congedarsi definitivamente.
Questi ultimi sono molto duri; Mosè si esprime, infatti, come un padre si rivolgerebbe ai propri figli, ammonendoli e rammentandogli le numerose occasioni in cui costoro hanno adottato un comportamento sbagliato.
La parashà di Devarim è quella che contiene le espressioni più aspre di Mosè, in cui si enfatizzano le nefandezze di ‘Am Israel e i suoi continui sbagli.
Non è un caso che questo Shabbat cada sempre in prossimità del giorno più luttuoso della storia del popolo ebraico – Tishà beav – giorno in cui il popolo piange la distruzione del I e del II Tempio di Gerusalemme, simbolo per il coincidente susseguirsi di sciagure avvenute al nostro popolo nel corso dei secoli.

La haftarà che leggeremo inizia con le parole «Chazon Jeshajahu […]» – «visione di Isaia […]» (Is 1;1), in cui il profeta ammonisce il popolo ebraico, per il suo comportamento lontano dai principi della Torà, e per questo verrà punito dolorosamente. La correlazione tra parashà e haftarà è così cruciale che questo Shabbat prende il nome dalla prima parola della haftarà: Shabbat chazon – (lett. “Shabbat della visione”).
Isaia, vissuto molto prima della distruzione del I Tempio, ne profetizza dettagliatamente il tragico epilogo e il conseguente esilio, causati dalla condotta del popolo.

Una delle espressioni di stupore che Moshé pronuncia all’inizio della nostra parashà, suona con le parole:
«Ekhà essà levaddì torchakhem u massaakhem ve rivekhem»
«Come è possibile sopportare da solo la vostra insistenza, la vostra pesantezza e la vostra litigiosità?
» (Devarim 1;12). Moshè, rivolgendosi al popolo non gli nasconde quanto, durante i quaranta anni di permanenza nel deserto, lo abbiano consumato a causa delle loro frequenti trasgressioni.

Con lo stesso interrogativo si apre l’haftarà:
«Ekhà hajetà le zonà qirià neemanà […]»
«Come è possibile che la città conosciuta come la Città di fede, viene chiamata prostituta?» (Is. 1;21).

Lo stesso vale per l’inizio dei capitoli delle Lamentazioni che leggeremo la sera e la mattina del 9 di Av:
«Ekhà jashevà badad ha ‘ir rabbati ‘am […]»
«Come è possibile che risieda solitaria la città famosa per la numerosa presenza di popolo?[…]» (Ekhà 1;1).

Nel piangere l’assedio, la distruzione di Gerusalemme e la deportazione del suo popolo, Geremia si chiede nello stesso modo di Moshè prima, di Isaia dopo, come è possibile che un popolo possa ridursi a tanto squallore?
In un altro passo della Torà troviamo un sottinteso che fa riferimento allo stesso interrogativo stupito di Moshè, Isaia e Geremia.
Al capitolo 3 verso 9 del libro di Bereshit, Adamo ed Eva trasgrediscono il primo ordine divino, quello di non mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.
Dopo averlo mangiato, coprono le loro nudità come forma di pudore, nei confronti del Creatore e si nascondono perché si vergognano di esser nudi.
La domanda divina all’Uomo è: “aiekka – dove sei?”.
Se leggiamo la parola come appare scritta sul Sefer Torà, senza punteggiatura, ci accorgiamo che essa è scritta con le stesse lettere di ekhà. Il Signore, vedendo l’uomo costretto a nascondersi al Suo cospetto, oltre al domandargli dove sei si chiede meravigliato: come mai; ossia: come mai ti sei ridotto ad abbassarti ad una condizione tale?
L’uomo durante il percorso della sua vita, a volte si perde per la strada ma deve avere la tenacia di ritrovare la giusta via, altrimenti cade nel profondo dell’immoralità.
‘Am Israel in Eretz Israel, all’epoca in cui esisteva il Bet ha Miqdash viveva al culmine del suo splendore; attraverso il cattivo comportamento nei confronti del suo prossimo, perde la sua dignità, si abbassa ad un livello tale da essere necessario chiedersi: come mai? Cosa hai fatto?

I Chakhamim del Talmud sostengono che, se il primo Tempio fu distrutto a causa della non osservanza delle mitzwot, il secondo fu dato alle fiamme a causa della mancanza di rispetto fra un uomo e suo fratello: lashon ha ra’.
Quando decade il rispetto umano dell’uomo verso suo fratello, vengono a cadere tutte le regole del vivere e dell’appartenenza: quindi di fratellanza.
La storia, la nostra storia di oltre tremila anni, dovrebbe averci fatto comprendere tutto questo, eppure ancora oggi amiamo andare in giro a spettegolare di nostro fratello dello stesso con cui nel corso della nostra storia abbiamo condiviso, oltre che gioie, sicuramente molte sofferenze.

Possa il Signore D-o Benedetto ricompensarci del lutto che noi facciamo per la distruzione di Gerusalemme, facendoci gioire nel vedere la sua ricostruzione e il nostro riavvicinamento a nostro fratello.

 

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta