Parashà Shemot

-Parashà SHEMOT-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT SHEMOT

Questa settimana leggeremo la prima parashà del secondo sefer della Torà: Shemòt. Dalla traduzione dei Settanta prima e dalla Vulgata poi, il sefer è stato chiamato Exodus o Esodo, poiché nella sua gran parte, racconta gli episodi inerenti la yetziàt Mitzraìm. Shemot in ebraico significa nomi, esattamente quei i nomi dei figli di Giacobbe che scesero in Egitto al tempo in cui loro fratello Giuseppe era viceré.

La prima consonante del primo versetto della parashà è una vav – una congiunzione: «E questi sono i nomi dei figli di Israele […]» (Shemòt 1; 1); a riprova della continuità cronologica che intercorre fra il libro di Bereshìt e quello di Shemòt e ulteriore testimonianza del fatto che tutta la Torà sia stata scritta da un’unica mano e da un unico Autore.

Rashì si chiede come mai, dopo avere elencato i nomi dei figli di Giacobbe alla fine del libro di Bereshit, nel momento in cui essi scendono in Egitto, la Torà torna li rimenzioni ancora una volta all’inizio del nuovo libro. All’interrogativo di Rashì si risponde che il Signore D-o che amava Giacobbe in modo smisurato con i suoi figli, dopo averli menzionati da vivi, cioè nel momento stesso in cui essi scendono in Egitto, vuole tornare a ricordarli anche dopo che erano morti. La particolarità del versetto in questione risiede nel tempo verbale – al presente – con cui il verbo “lavò – venire” è coniugato: «E questi sono i nomi dei figli di Israele che scendono in Egitto […]», quando l’aspettativa del lettore è si scelga almeno una forma passata, trattandosi di avvenimenti molto datati.

La Torà esprime un concetto di base: la conseguenza di un cattivo comportamento è la Diaspora e la Diaspora è sempre in agguato per il figli di Israele – in ogni momento.

Il fatto che il verbo sia stato menzionato al presente ci insegna che in Egitto, in Babilonia, a Roma ecc… gli ebrei sono stati esiliati a causa del loro comportamento che non appartiene al passato, ma può ripetersi in ogni momento della storia.

Un famoso esegeta moderno, sostiene che il motivo della ripetizione dei nomi è dovuta al fatto che per molti anni, da quando scesero in Egitto, gli ebrei si assimilarono alla cultura del luogo, dimenticando lo studio, la loro cultura e le loro tradizioni. Quindi, secondo il Maestro è come se fossero morti; trascorsi molti anni, solo in prossimità della loro futura liberazione, la Torà torna a ricordare i loro nomi e le loro tradizioni.



Shabbat shalom,
Rav Alberto Sermoneta

Parashà VAICHI’

-Parashà Vaichì-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT VAICHI’

In parashat Vaichì che chiude il sefer Bereshìt si racconta della morte di Giacobbe e di tutti gli episodi ad essa connessi, comprese le benedizioni e le profezie che impartisce ai figli e ai nipoti Efraim e Menashè prima di morire. Per ognuno di loro Giacobbe predice il futuro, e le conseguenze del loro agire nel corso del tempo.

Le parole più sconvolgenti, saranno quelli che Giacobbe rivolge ai due figli, Simeone e Levi;

Simeone e Levi sono fratelli, le loro spade sono oggetti di violenza; la mia persona non entri nella loro riunione, non partecipare oh anima mia alla loro assemblea, poiché quando sono adirati uccidono uomini e quando sono calmi sgarrettano i buoi. Maledetta la loro ira che è violenta e il loro furore che è duro; li dividerò in Giacobbe e li sparpaglierò in Israele” (Bereshìt 49; 5-7).

In pochi versetti troviamo le espressioni più dure che Giacobbe abbia mai pronunciato in tutta la sua vita nei confronti dei propri figli, indissolubilmente legate alla vendetta violenta perpetrata da Simeone e Levi contro la popolazione di Shechem, raccontato al capitolo 34 di Bereshìt.

La maledizione di Giacobbe, si estende anche ai tempi molto successivi, in quanto né i discendenti di Simeone né quelli di Levi avranno un territorio in Israele. Mentre la tribù di Levi si riscatterà ai tempi di Mosè, in quanto non prenderà parte al fatto del “vitello d’oro” e si renderà partecipe nel giustiziare coloro che si erano macchiati di quella grave colpa, Simeone verrà totalmente inghiottito da tutto il resto del popolo.

La berakhà che in seguito Mosè rivolgerà a tutto il popolo prima di morire, ha una somiglianza con quella di Giacobbe, in quanto si rivolge a tutte le Tribù, nominandole una ad una, ricordando anche quella di Levi e prendendola come esempio per il suo comportamento e per i suoi sacri incarichi (Cohanim e leviim), ma ometterà totalmente il nome di Simeone.

La parashà si conclude con la profezia che Giuseppe fa in punto di morte, che è quella che il Signore Iddio si ricorderà del Suo popolo, facendolo uscire dall’Egitto, dopo molti anni di schiavitù, verso la Terra che ha giurato di dare in retaggio ad Abramo, Isacco e Giacobbe.

 

Shabbat shalom,
Rav Alberto Sermoneta

Parashà VAIGGASH

-Parashà Vaiggash-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT VAIGGASH

Con la nostra parashà si conclude la prima parte della storia di Josef con i suoi fratelli.
Dopo una lunga discussione che lo vede protagonista assieme al fratello Yehuda, Yosef si fa finalmente riconoscere da tutti i suoi fratelli. La motivazione che egli adduce al fatto che sia in Egitto, non è quella della volontà dei fratelli di disfarsi di lui, quanto quella che tutto appartiene ad un disegno divino, messo in atto per salvare la sua famiglia dai sette anni di carestia.
I disegni divini sono imprevedibili per la mente umana, in quanto possono realizzarsi nei modi e nei tempi più disparati e lontani dalla nostra immaginazione.
La storia di Yaaqov, dei suoi figli, di Yosef con i suoi fratelli ci insegnano che il susseguirsi di eventi simili a sciagure, siano in realtà la manifestazione divina di un percorso ben conosciuto da D-o che lo mette in atto.

«Ha nistarot l’A’ Elohenu Ve ha niglot lanu ulvanenu […] la’asot et col divré ha Torah ha zot» –
«Le cose occulte appartengono al Signore nostro D-o e le manifeste a noi e ai nostri figli per sempre, per mettere in pratica le parole di questa Torà» 
(Devarìm 29;28).

Quando ci rivolgiamo al Signore, chiedendoGli una qualsiasi cosa di cui abbiamo bisogno, ci aspetteremmo una risposta immediata che fosse per noi comprensibile.
Hashem, tuttavia, esaudisce le nostre richieste in modo del tutto imprevedibile, fino a darci la possibilità di comprendere ciò di cui siamo stati beneficiati.
Tutto questo avviene però con un tempo e con delle modalità a noi completamente sconosciute. Questo è ciò che è capitato a Ya’aqov, a Yosef e a tutti i suoi fratelli.
Questo è anche ciò che capita a noi e che prevede da parte nostra un profonda fiducia nell’operato divino e nelle Sue grandi possibilità.

Shabbat Shalom,

Rav Alberto Sermoneta

Parashà MIKKETZ

-Parashà MIKKETZ-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT MIKKETZ

In Mikketz troviamo le vicende di Giuseppe in Egitto, il quale, attraverso la sua fiducia in D-o e il suo comportamento integerrimo, verrà affrancato dalla schiavitù diventando viceré del paese.

«[…] Elo-him ja’anè et shelom par’ò»
«[…] il Signore risponderà in modo da incutere pace nel faraone»
(Bereshìt 41; 16); è questa la modalità espressiva utilizzata da Josef al cospetto del faraone, considerato dagli egiziani stessi una divinità in terra. Risalta così il suo essere uno zaddik – un giusto, in quanto nonostante il culto del faraone, Josef non nasconderà mai la propria identità ebraica.

Così avvenne, secoli dopo, con i Maccabìm, che combatterono contro i Greci proprio per non dover nascondere la propria identità. Il pericolo per gli ebrei è sempre in agguato e non sta nel fatto che qualcuno tenti di sterminarci, ma fra noi stessi nel momento in cui, per timore che accada qualcosa di male, nascondiamo le nostre origini rinnegando le nostre tradizioni.

La cultura ellenica, opprimeva gli ebrei tentando di farli allontanare dalle tradizioni più forti, come quelle dell’osservanza dello Shabbat, patto eterno fra D-o e il popolo ebraico dal punto di vista spirituale, della Circoncisione, patto eterno fra D-o e gli ebrei dal punto di vista fisico – berit she chatam bivsarenu – patto impresso nella nostra carne e la celebrazione del rosh chodesh – capo mese in cui gli ebrei affermano il loro rinnovamento come identità di popolo attraverso il conteggio del calendario, dando quindi un valore fondamentale alla scansione del tempo.

Non a caso durante gli otto giorni di Chanuccà si ribadiscono tutti questi concetti:

  • la festa dura otto giorni, come i giorni che si contano dalla nascita di un figlio maschio al giorno della circoncisione;
  • durante questi otto giorni vi è all’interno di essi, almeno uno shabbat e,
  • unica “eccezione” del calendario ebraico, è l’unica ricorrenza in cui celebriamo, oltre alla festa, anche due giorni di Rosh Chodesh (Tevèt).

La festa di Chanuccà viene celebrata attraverso l’accensione dei lumi, che simboleggiano l’eternità: il fuoco se viene costantemente alimentato, non si spegne mai così come il popolo ebraico, se osserverà le regole della Torà, mantenendosi saldamente legato alle proprie tradizioni, non cesserà mai di esistere, a discapito di tutti coloro che nel corso dei millenni hanno sempre tentato di annientarci e cancellarci dalla faccia della terra.
 

Shabbat shalom,
Chodesh tov e Chag ha-urìm sameach,
Rav Alberto Sermoneta

1° Incontro del ciclo Israele oggi con Gad Lerner

- 1° INCONTRO DEL CICLO 'ISRAELE OGGI'-

Venezia Ebraica - Jewish Venice

Domenica 15 dicembre, in una Sala Montefiore gremita, ha preso il via il ciclo di quattro incontri intitolato Israele oggi, durante il quale ascolteremo posizioni diverse di esperti e storici, sull’ attuale situazione in Israele.
 
Nel corso della prima conversazione Gad Lerner ha dialogato con lo storico Giovanni Levi, esponendo le proprie visioni, anche nei confronti della storia recente e dell’attualità politica israeliana, non nascondendo un velato ottimismo che la drammaticità del momento storico attraversato da Israele possa risolversi, rapidamente, con un colpo di scena inaspettato.
 
I prossimi tre appuntamenti, vedranno intervenire in Comunità la storica Anna Foa, il direttore de Il Foglio Claudio Cerasa, e il giornalista e conduttore televisivo David Parenzo. Eventuali interessati a partecipare in presenza potranno contattarci all’indirizzo email: cultura@jvenice.org.
 
A febbraio, invece, intervisteremo con rav Alberto Sermoneta lo scrittore e giornalista Aldo Cazzullo, in una conversazione su prospettive testuali riguardanti la Bibbia, oggetto del suo ultimo lavoro.

Parashat Ki tavò

- Parashat Ki Tavo' -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

La parashà di Ki tavò contiene ammonimenti duri e secchi  che i nostri Maestri hanno rinominato con il termine kelalot – “maledizioni”.

«Ve hajà ki tavò el ha aretz»
«E avverrà, quando giungerai sulla terra […]» (Devarìm 26;1).


Rash”ì sostiene che in qualsiasi occasione in cui il testo inizia con la parola ve hajà il suo seguito sarà sicuramente positivo.
Cioè l’inizio di un racconto con la parola ve hajà è sintomo di lieto fine, mentre quando il racconto inizia con la parola va jehì – (lett. “e fu”), il fine o perlomeno il contesto del racconto, non sarà tanto lieto.
Allora, sostengono i Maestri, perché essa contiene le kelalot?
Per comprendere la risposta, bisogna fare un salto indietro fino al libro di Vaikrà: nella parashà di Bechuccotai (Vaikrà 26; 14 – 45) è contenuto un brano simile a quello in causa, ma in forma più leggera, tanto che i Maestri lo hanno chiamato tokhachot (lett. “ammonimenti”).
Alcuni commentatori, al fine di distinguerli, li hanno denominati: tokhachà ketannà (piccolo ammonimento, in riferimento al passaggio di Vaikrà), mentre quello di Devarìm è stato chiamato tokhachà ghedolà (lett. “grande ammonizione”), caratterizzato, cioè, da una forma più severa e cruda.
Come possiamo dunque conciliare l’argomentazione di Rash”i circa la paralo ve hajà?
Soltanto chi ha la forza e l’onestà di ammonire, anche in modo duro,  riesce a far capire quanto affetto nutre per qualcuno.
Un proverbio ebraico italiano suona con le parole: «chi ti vuol bene ti fa piangere e chi ti vuol male ti fa ridere […]».

Il Signore Iddio ama il popolo di Israele e per questo lo mette in guardia per il suo comportamento.

 

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashat Devarìm

- Parashat devarim -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Questo Shabbat inizieremo la lettura del quinto ed ultimo sefer della Torà, conosciuto anche come Mishnè Torà poiché in esso vengono riassunte le parti fondamentali della vita del popolo durante i quaranta anni di permanenza nel deserto.
Il libro contiene i discorsi ammonitivi che Mosè rivolge al popolo prima di congedarsi definitivamente.
Questi ultimi sono molto duri; Mosè si esprime, infatti, come un padre si rivolgerebbe ai propri figli, ammonendoli e rammentandogli le numerose occasioni in cui costoro hanno adottato un comportamento sbagliato.
La parashà di Devarim è quella che contiene le espressioni più aspre di Mosè, in cui si enfatizzano le nefandezze di ‘Am Israel e i suoi continui sbagli.
Non è un caso che questo Shabbat cada sempre in prossimità del giorno più luttuoso della storia del popolo ebraico – Tishà beav – giorno in cui il popolo piange la distruzione del I e del II Tempio di Gerusalemme, simbolo per il coincidente susseguirsi di sciagure avvenute al nostro popolo nel corso dei secoli.

La haftarà che leggeremo inizia con le parole «Chazon Jeshajahu […]» – «visione di Isaia […]» (Is 1;1), in cui il profeta ammonisce il popolo ebraico, per il suo comportamento lontano dai principi della Torà, e per questo verrà punito dolorosamente. La correlazione tra parashà e haftarà è così cruciale che questo Shabbat prende il nome dalla prima parola della haftarà: Shabbat chazon – (lett. “Shabbat della visione”).
Isaia, vissuto molto prima della distruzione del I Tempio, ne profetizza dettagliatamente il tragico epilogo e il conseguente esilio, causati dalla condotta del popolo.

Una delle espressioni di stupore che Moshé pronuncia all’inizio della nostra parashà, suona con le parole:
«Ekhà essà levaddì torchakhem u massaakhem ve rivekhem»
«Come è possibile sopportare da solo la vostra insistenza, la vostra pesantezza e la vostra litigiosità?
» (Devarim 1;12). Moshè, rivolgendosi al popolo non gli nasconde quanto, durante i quaranta anni di permanenza nel deserto, lo abbiano consumato a causa delle loro frequenti trasgressioni.

Con lo stesso interrogativo si apre l’haftarà:
«Ekhà hajetà le zonà qirià neemanà […]»
«Come è possibile che la città conosciuta come la Città di fede, viene chiamata prostituta?» (Is. 1;21).

Lo stesso vale per l’inizio dei capitoli delle Lamentazioni che leggeremo la sera e la mattina del 9 di Av:
«Ekhà jashevà badad ha ‘ir rabbati ‘am […]»
«Come è possibile che risieda solitaria la città famosa per la numerosa presenza di popolo?[…]» (Ekhà 1;1).

Nel piangere l’assedio, la distruzione di Gerusalemme e la deportazione del suo popolo, Geremia si chiede nello stesso modo di Moshè prima, di Isaia dopo, come è possibile che un popolo possa ridursi a tanto squallore?
In un altro passo della Torà troviamo un sottinteso che fa riferimento allo stesso interrogativo stupito di Moshè, Isaia e Geremia.
Al capitolo 3 verso 9 del libro di Bereshit, Adamo ed Eva trasgrediscono il primo ordine divino, quello di non mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.
Dopo averlo mangiato, coprono le loro nudità come forma di pudore, nei confronti del Creatore e si nascondono perché si vergognano di esser nudi.
La domanda divina all’Uomo è: “aiekka – dove sei?”.
Se leggiamo la parola come appare scritta sul Sefer Torà, senza punteggiatura, ci accorgiamo che essa è scritta con le stesse lettere di ekhà. Il Signore, vedendo l’uomo costretto a nascondersi al Suo cospetto, oltre al domandargli dove sei si chiede meravigliato: come mai; ossia: come mai ti sei ridotto ad abbassarti ad una condizione tale?
L’uomo durante il percorso della sua vita, a volte si perde per la strada ma deve avere la tenacia di ritrovare la giusta via, altrimenti cade nel profondo dell’immoralità.
‘Am Israel in Eretz Israel, all’epoca in cui esisteva il Bet ha Miqdash viveva al culmine del suo splendore; attraverso il cattivo comportamento nei confronti del suo prossimo, perde la sua dignità, si abbassa ad un livello tale da essere necessario chiedersi: come mai? Cosa hai fatto?

I Chakhamim del Talmud sostengono che, se il primo Tempio fu distrutto a causa della non osservanza delle mitzwot, il secondo fu dato alle fiamme a causa della mancanza di rispetto fra un uomo e suo fratello: lashon ha ra’.
Quando decade il rispetto umano dell’uomo verso suo fratello, vengono a cadere tutte le regole del vivere e dell’appartenenza: quindi di fratellanza.
La storia, la nostra storia di oltre tremila anni, dovrebbe averci fatto comprendere tutto questo, eppure ancora oggi amiamo andare in giro a spettegolare di nostro fratello dello stesso con cui nel corso della nostra storia abbiamo condiviso, oltre che gioie, sicuramente molte sofferenze.

Possa il Signore D-o Benedetto ricompensarci del lutto che noi facciamo per la distruzione di Gerusalemme, facendoci gioire nel vedere la sua ricostruzione e il nostro riavvicinamento a nostro fratello.

 

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashat Balaq

Balaq

- Parashat BALAQ -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Balaq, re di Moav, impaurito dai recenti successi militari degli Israeliti, fa convocare Bil’am, famoso e temuto profeta – stregone, per maledire il popolo di Israele.

Dal racconto biblico sappiamo che nulla poté contro Israele, poiché popolo costantemente protetto dal Signore Iddio: «[…] lo taor et ha am ki barukh hu» – «[…] non maledirai il popolo perché esso è benedetto» (Bamidbar 22;12); su tutto ciò che è benedetto a priori, la maledizione non ha effetto.

Ci troviamo qui davanti a due personaggi temutissimi dell’epoca: Mosè, profeta del popolo ebraico e suo Maestro e Bil’am, profeta del culto pagano e suo stregone.

Quali sono le sostanziali differenze fra i due personaggi?

La concezione di profetismo in mezzo al popolo ebraico è assai differente rispetto all’immaginario comune, sia nel passato che in epoca recente. Mosè era l’uomo di D-o che si rivolgeva al popolo per bocca sua e quindi, aveva il compito di esplicare al popolo gli insegnamenti divini. Egli – il profeta di Israele, non interpretava presagi, ma si limitava a rivelare al popolo le conseguenze, in termini di benedizioni e maledizioni future, dell’osservanza delle mitzvot. Mosè, nonostante il suo importante incarico, era considerato un uomo a tutti gli effetti, senza super poteri, soprattutto per il suo modo di porsi: «e l’uomo Mosè era molto umile fra tutti gli uomini della terra» (Bamidbar 12;3).

Per Bil’am non era così, egli godeva di rispetto più per una condizione di timore, che per reale valore; era celebre per le sue espressioni, in particolar modo per le maledizioni che rivolgeva, dietro pagamento; nella parashà troviamo, infatti: «….poichè ti onorerò moltissimo…. Se distruggerai attraverso i tuoi vaticini questo popolo» (Bamidbar 22; 17). Un uomo del suo calibro, benché temuto, non può andare lontano, non può fare molta strada contro il volere divino! Nella parashà notiamo che da ogni angolazione in cui Bil’àm si sporgesse per vedere meglio l’accampamento di Israele e meglio maledirlo, le sue parole si tramutavano da maledizioni in benedizioni.

«Ma tovu ohalekha Ja’aqov, mishkenotekha Israel […]» – «Come sono belle le tue tende oh Giacobbe e i tuoi Santuari oh Israel […]» (Bamidbar 24;5) questa è l’ultima maledizione-benedizione che rivolge al popolo, dopodiché viene cacciato da Balaq.

I commentatori spiegano che le tende simboleggiano le scuole e i luoghi dove si studia Torà, mentre i santuari i luoghi dove si prega. Con lo studio della Torà, l’osservanza dei suoi precetti e le tefillot, ‘am Israel sopravvive ad ogni maledizione, anche quelle che avrebbe dovuto lanciare Bil’am.

 

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashat Chuqat

- Parashat CHUQAT -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Nella parashà di Chuqat troviamo un lungo elenco di mizvot e la narrazione di avvenimenti, soprattutto negativi, che hanno caratterizzato il comportamento del popolo durante la permanenza di quaranta anni nel deserto.
Il termine choq da cui deriva la parola chuqat, viene tradotto letteralmente legge statuto, ma in realtà deriva dal verbo le- chaqek che significa scolpire/incidere sulla pietra.
Tutto ciò che è scolpito sulla pietra non può essere facilmente cancellabile, quindi, anche questo tipo di mizvot hanno un valore eterno e servono a dimostrare il sentimento di ogni appartenente al popolo di Israele.
Infatti, se per ogni altro tipo di mizvà abbiamo il diritto di poterci interrogare sulla sua origine e sul suo significato, per i chuqim, non possiamo farci queste domande o, per meglio dire, possiamo chiedercelo ma nessuno ci confermerà la nostra ipotesi.
Essi – i chuqim – infatti, hanno lo scopo di esplicitare il legame del singolo con Hashem.
Tra gli episodi negativi ricordati nella parashà troviamo prima la morte di Miriam, sorella di Mosè ed Aaron, poi, la sentenza definitiva da parte di D-o che né Aaron né Mosè entreranno in Israele e, infine, la morte di Aaron, sostituito per volontà divina da suo figlio Ele’azar.
È narrato infine l’episodio in cui diversi Israeliti, a seguito di maldicenza, vengono infettati dal veleno di serpenti e, dopo che molti hanno fatto teshuvà, il Signore comanda a Mosè di costruire un serpente di rame e porlo nella tenda della Sacra Radunanza, cosi che coloro che fossero stati morsi da un serpente, fissando il serpente di rame, sarebbero potuti guarire.
Moltissimi commentatori hanno proposto le più svariate di interpretazioni, fra cui quella dell’antidoto al morso del serpente che si ricava dal serpente stesso; ma proprio come detto precedentemente, ci sono delle cose che non possono essere spiegate.
Una teoria è quella che, essendo il serpente posto su di una colonna molto in alto, coloro che volevano guardare il serpente dovevano, per forza di cose alzare gli occhi verso l’ alto.
Quel gesto, lo portava a guardare verso D-o che lo avrebbe, dopo la sua richiesta, guarito.
Come questo, tanti altri episodi, contenuti nella parashà, hanno un significato oscuro o complesso da interpretare, come l’acqua che scaturisce dalla roccia e disseta il popolo che si lamenta per la sete; è per questo motivo che tutto ciò rientra nella categoria di quelle regole o comportamenti chiamati chuqim.

 

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashat Shelach Lekhà

- Parashat SHELACH LEKHÀ -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

«Manda per te degli uomini e visitino la Terra di Canaan che Io do ai figli di Israele […]» (Bamidbar 13;1).

La parashà che leggeremo questo Shabbat narra del viaggio dei “dodici esploratori” nella Terra che diverrà poi la Terra di Israele, come il Signore D-o aveva promesso di dare al popolo sin dai tempi dei Patriarchi.

L’imperativo shelach lekhà denota già da parte del Signore una posizione antitetica a quella del popolo, che pretende che qualcuno visiti la terra, prima di iniziare le guerre di conquista.
Sia Rashì che altri commentatori spiegano il termine lekhà (lett. “per te”) dicendo che è una conseguenza di «quello che tu e che il popolo avete chiesto» che Io ti ordino di mandare ad esplorare la Terra.

Il ritorno degli esploratori all’accampamento è caratterizzato da conseguenze catastrofiche: il popolo sarà punito, con una sentenza irreversibile, perché ancora una volta manifesta mancanza di fiducia in D-o. Essi rimarranno quaranta anni nel deserto, affinché  la vecchia generazione, quella uscita dall’Egitto non entri nella Terra di Israele, se non Giosuè e Calev, che furono gli unici a manifestare la volontà di conquistare quella terra, con l’aiuto incondizionato di D-o.

‘Am Israel era da poco uscito dall’Egitto, dove aveva trascorso quattrocento anni in schiavitù, a contatto diretto con una popolazione idolatra, che vedeva nelle proprie divinità solamente una forma di vano egoismo e personalizzazione voluta dai capi del popolo. Essi – gli egiziani – credevano nelle varie divinità soltanto perché obbligati dalle loro autorità, ma in esse, non riponevano fiducia alcuna.
Il popolo ebraico, per quanto avesse assistito a manifestazioni incredibili da parte del D-o unico, il quale attraverso il Suo operato aveva salvato Israele dalla schiavitù, facendolo uscire verso la libertà, aveva ancora un atteggiamento legato a quelle tradizioni.
Piangere per una cosa senza fondamento: «[…] e il popolo pianse quella notte […]» (Bemidbar 14;1) sintetizza la scarsa maturità e la poca consapevolezza nei propri mezzi del popolo, giudicati da Hashem non idonei a partecipare attivamente del progetto della conquista della terra.

Le parole di Giosuè e Calev: «è vero che è una terra abitata da giganti, è pur vero che vi sono in essa molte difficoltà per essere conquistata, ma con l’aiuto di D-o, noi riusciremo» (Bamidbar 14; 8-9) manifestano, da una parte la conferma di ciò che avevano detto gli altri dieci esploratori, dall’altra però incutevano nei cuori del popolo la fiducia necessaria, sia in se stessi, sia e soprattutto in D-o che aveva fatto una promessa storica e che, come aveva mantenuto tutte le altre, avrebbe sicuramente mantenuto anche questa.

Non a caso, secondo i commentatori, “quella notte” sarebbe la notte del 9 di Av, giorno in cui, molti secoli dopo sarebbero stati distrutti sia il primo che il secondo Bet Hamiqdash di Gerusalemme.

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta