Parashà MIKKETZ

-Parashà MIKKETZ-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT MIKKETZ

In Mikketz troviamo le vicende di Giuseppe in Egitto, il quale, attraverso la sua fiducia in D-o e il suo comportamento integerrimo, verrà affrancato dalla schiavitù diventando viceré del paese.

«[…] Elo-him ja’anè et shelom par’ò»
«[…] il Signore risponderà in modo da incutere pace nel faraone»
(Bereshìt 41; 16); è questa la modalità espressiva utilizzata da Josef al cospetto del faraone, considerato dagli egiziani stessi una divinità in terra. Risalta così il suo essere uno zaddik – un giusto, in quanto nonostante il culto del faraone, Josef non nasconderà mai la propria identità ebraica.

Così avvenne, secoli dopo, con i Maccabìm, che combatterono contro i Greci proprio per non dover nascondere la propria identità. Il pericolo per gli ebrei è sempre in agguato e non sta nel fatto che qualcuno tenti di sterminarci, ma fra noi stessi nel momento in cui, per timore che accada qualcosa di male, nascondiamo le nostre origini rinnegando le nostre tradizioni.

La cultura ellenica, opprimeva gli ebrei tentando di farli allontanare dalle tradizioni più forti, come quelle dell’osservanza dello Shabbat, patto eterno fra D-o e il popolo ebraico dal punto di vista spirituale, della Circoncisione, patto eterno fra D-o e gli ebrei dal punto di vista fisico – berit she chatam bivsarenu – patto impresso nella nostra carne e la celebrazione del rosh chodesh – capo mese in cui gli ebrei affermano il loro rinnovamento come identità di popolo attraverso il conteggio del calendario, dando quindi un valore fondamentale alla scansione del tempo.

Non a caso durante gli otto giorni di Chanuccà si ribadiscono tutti questi concetti:

  • la festa dura otto giorni, come i giorni che si contano dalla nascita di un figlio maschio al giorno della circoncisione;
  • durante questi otto giorni vi è all’interno di essi, almeno uno shabbat e,
  • unica “eccezione” del calendario ebraico, è l’unica ricorrenza in cui celebriamo, oltre alla festa, anche due giorni di Rosh Chodesh (Tevèt).

La festa di Chanuccà viene celebrata attraverso l’accensione dei lumi, che simboleggiano l’eternità: il fuoco se viene costantemente alimentato, non si spegne mai così come il popolo ebraico, se osserverà le regole della Torà, mantenendosi saldamente legato alle proprie tradizioni, non cesserà mai di esistere, a discapito di tutti coloro che nel corso dei millenni hanno sempre tentato di annientarci e cancellarci dalla faccia della terra.
 

Shabbat shalom,
Chodesh tov e Chag ha-urìm sameach,
Rav Alberto Sermoneta

1° Incontro del ciclo Israele oggi con Gad Lerner

- 1° INCONTRO DEL CICLO 'ISRAELE OGGI'-

Venezia Ebraica - Jewish Venice

Domenica 15 dicembre, in una Sala Montefiore gremita, ha preso il via il ciclo di quattro incontri intitolato Israele oggi, durante il quale ascolteremo posizioni diverse di esperti e storici, sull’ attuale situazione in Israele.
 
Nel corso della prima conversazione Gad Lerner ha dialogato con lo storico Giovanni Levi, esponendo le proprie visioni, anche nei confronti della storia recente e dell’attualità politica israeliana, non nascondendo un velato ottimismo che la drammaticità del momento storico attraversato da Israele possa risolversi, rapidamente, con un colpo di scena inaspettato.
 
I prossimi tre appuntamenti, vedranno intervenire in Comunità la storica Anna Foa, il direttore de Il Foglio Claudio Cerasa, e il giornalista e conduttore televisivo David Parenzo. Eventuali interessati a partecipare in presenza potranno contattarci all’indirizzo email: cultura@jvenice.org.
 
A febbraio, invece, intervisteremo con rav Alberto Sermoneta lo scrittore e giornalista Aldo Cazzullo, in una conversazione su prospettive testuali riguardanti la Bibbia, oggetto del suo ultimo lavoro.

Parashat Ki tavò

- Parashat Ki Tavo' -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

La parashà di Ki tavò contiene ammonimenti duri e secchi  che i nostri Maestri hanno rinominato con il termine kelalot – “maledizioni”.

«Ve hajà ki tavò el ha aretz»
«E avverrà, quando giungerai sulla terra […]» (Devarìm 26;1).


Rash”ì sostiene che in qualsiasi occasione in cui il testo inizia con la parola ve hajà il suo seguito sarà sicuramente positivo.
Cioè l’inizio di un racconto con la parola ve hajà è sintomo di lieto fine, mentre quando il racconto inizia con la parola va jehì – (lett. “e fu”), il fine o perlomeno il contesto del racconto, non sarà tanto lieto.
Allora, sostengono i Maestri, perché essa contiene le kelalot?
Per comprendere la risposta, bisogna fare un salto indietro fino al libro di Vaikrà: nella parashà di Bechuccotai (Vaikrà 26; 14 – 45) è contenuto un brano simile a quello in causa, ma in forma più leggera, tanto che i Maestri lo hanno chiamato tokhachot (lett. “ammonimenti”).
Alcuni commentatori, al fine di distinguerli, li hanno denominati: tokhachà ketannà (piccolo ammonimento, in riferimento al passaggio di Vaikrà), mentre quello di Devarìm è stato chiamato tokhachà ghedolà (lett. “grande ammonizione”), caratterizzato, cioè, da una forma più severa e cruda.
Come possiamo dunque conciliare l’argomentazione di Rash”i circa la paralo ve hajà?
Soltanto chi ha la forza e l’onestà di ammonire, anche in modo duro,  riesce a far capire quanto affetto nutre per qualcuno.
Un proverbio ebraico italiano suona con le parole: «chi ti vuol bene ti fa piangere e chi ti vuol male ti fa ridere […]».

Il Signore Iddio ama il popolo di Israele e per questo lo mette in guardia per il suo comportamento.

 

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashat Devarìm

- Parashat devarim -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Questo Shabbat inizieremo la lettura del quinto ed ultimo sefer della Torà, conosciuto anche come Mishnè Torà poiché in esso vengono riassunte le parti fondamentali della vita del popolo durante i quaranta anni di permanenza nel deserto.
Il libro contiene i discorsi ammonitivi che Mosè rivolge al popolo prima di congedarsi definitivamente.
Questi ultimi sono molto duri; Mosè si esprime, infatti, come un padre si rivolgerebbe ai propri figli, ammonendoli e rammentandogli le numerose occasioni in cui costoro hanno adottato un comportamento sbagliato.
La parashà di Devarim è quella che contiene le espressioni più aspre di Mosè, in cui si enfatizzano le nefandezze di ‘Am Israel e i suoi continui sbagli.
Non è un caso che questo Shabbat cada sempre in prossimità del giorno più luttuoso della storia del popolo ebraico – Tishà beav – giorno in cui il popolo piange la distruzione del I e del II Tempio di Gerusalemme, simbolo per il coincidente susseguirsi di sciagure avvenute al nostro popolo nel corso dei secoli.

La haftarà che leggeremo inizia con le parole «Chazon Jeshajahu […]» – «visione di Isaia […]» (Is 1;1), in cui il profeta ammonisce il popolo ebraico, per il suo comportamento lontano dai principi della Torà, e per questo verrà punito dolorosamente. La correlazione tra parashà e haftarà è così cruciale che questo Shabbat prende il nome dalla prima parola della haftarà: Shabbat chazon – (lett. “Shabbat della visione”).
Isaia, vissuto molto prima della distruzione del I Tempio, ne profetizza dettagliatamente il tragico epilogo e il conseguente esilio, causati dalla condotta del popolo.

Una delle espressioni di stupore che Moshé pronuncia all’inizio della nostra parashà, suona con le parole:
«Ekhà essà levaddì torchakhem u massaakhem ve rivekhem»
«Come è possibile sopportare da solo la vostra insistenza, la vostra pesantezza e la vostra litigiosità?
» (Devarim 1;12). Moshè, rivolgendosi al popolo non gli nasconde quanto, durante i quaranta anni di permanenza nel deserto, lo abbiano consumato a causa delle loro frequenti trasgressioni.

Con lo stesso interrogativo si apre l’haftarà:
«Ekhà hajetà le zonà qirià neemanà […]»
«Come è possibile che la città conosciuta come la Città di fede, viene chiamata prostituta?» (Is. 1;21).

Lo stesso vale per l’inizio dei capitoli delle Lamentazioni che leggeremo la sera e la mattina del 9 di Av:
«Ekhà jashevà badad ha ‘ir rabbati ‘am […]»
«Come è possibile che risieda solitaria la città famosa per la numerosa presenza di popolo?[…]» (Ekhà 1;1).

Nel piangere l’assedio, la distruzione di Gerusalemme e la deportazione del suo popolo, Geremia si chiede nello stesso modo di Moshè prima, di Isaia dopo, come è possibile che un popolo possa ridursi a tanto squallore?
In un altro passo della Torà troviamo un sottinteso che fa riferimento allo stesso interrogativo stupito di Moshè, Isaia e Geremia.
Al capitolo 3 verso 9 del libro di Bereshit, Adamo ed Eva trasgrediscono il primo ordine divino, quello di non mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male.
Dopo averlo mangiato, coprono le loro nudità come forma di pudore, nei confronti del Creatore e si nascondono perché si vergognano di esser nudi.
La domanda divina all’Uomo è: “aiekka – dove sei?”.
Se leggiamo la parola come appare scritta sul Sefer Torà, senza punteggiatura, ci accorgiamo che essa è scritta con le stesse lettere di ekhà. Il Signore, vedendo l’uomo costretto a nascondersi al Suo cospetto, oltre al domandargli dove sei si chiede meravigliato: come mai; ossia: come mai ti sei ridotto ad abbassarti ad una condizione tale?
L’uomo durante il percorso della sua vita, a volte si perde per la strada ma deve avere la tenacia di ritrovare la giusta via, altrimenti cade nel profondo dell’immoralità.
‘Am Israel in Eretz Israel, all’epoca in cui esisteva il Bet ha Miqdash viveva al culmine del suo splendore; attraverso il cattivo comportamento nei confronti del suo prossimo, perde la sua dignità, si abbassa ad un livello tale da essere necessario chiedersi: come mai? Cosa hai fatto?

I Chakhamim del Talmud sostengono che, se il primo Tempio fu distrutto a causa della non osservanza delle mitzwot, il secondo fu dato alle fiamme a causa della mancanza di rispetto fra un uomo e suo fratello: lashon ha ra’.
Quando decade il rispetto umano dell’uomo verso suo fratello, vengono a cadere tutte le regole del vivere e dell’appartenenza: quindi di fratellanza.
La storia, la nostra storia di oltre tremila anni, dovrebbe averci fatto comprendere tutto questo, eppure ancora oggi amiamo andare in giro a spettegolare di nostro fratello dello stesso con cui nel corso della nostra storia abbiamo condiviso, oltre che gioie, sicuramente molte sofferenze.

Possa il Signore D-o Benedetto ricompensarci del lutto che noi facciamo per la distruzione di Gerusalemme, facendoci gioire nel vedere la sua ricostruzione e il nostro riavvicinamento a nostro fratello.

 

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashat Balaq

Balaq

- Parashat BALAQ -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Balaq, re di Moav, impaurito dai recenti successi militari degli Israeliti, fa convocare Bil’am, famoso e temuto profeta – stregone, per maledire il popolo di Israele.

Dal racconto biblico sappiamo che nulla poté contro Israele, poiché popolo costantemente protetto dal Signore Iddio: «[…] lo taor et ha am ki barukh hu» – «[…] non maledirai il popolo perché esso è benedetto» (Bamidbar 22;12); su tutto ciò che è benedetto a priori, la maledizione non ha effetto.

Ci troviamo qui davanti a due personaggi temutissimi dell’epoca: Mosè, profeta del popolo ebraico e suo Maestro e Bil’am, profeta del culto pagano e suo stregone.

Quali sono le sostanziali differenze fra i due personaggi?

La concezione di profetismo in mezzo al popolo ebraico è assai differente rispetto all’immaginario comune, sia nel passato che in epoca recente. Mosè era l’uomo di D-o che si rivolgeva al popolo per bocca sua e quindi, aveva il compito di esplicare al popolo gli insegnamenti divini. Egli – il profeta di Israele, non interpretava presagi, ma si limitava a rivelare al popolo le conseguenze, in termini di benedizioni e maledizioni future, dell’osservanza delle mitzvot. Mosè, nonostante il suo importante incarico, era considerato un uomo a tutti gli effetti, senza super poteri, soprattutto per il suo modo di porsi: «e l’uomo Mosè era molto umile fra tutti gli uomini della terra» (Bamidbar 12;3).

Per Bil’am non era così, egli godeva di rispetto più per una condizione di timore, che per reale valore; era celebre per le sue espressioni, in particolar modo per le maledizioni che rivolgeva, dietro pagamento; nella parashà troviamo, infatti: «….poichè ti onorerò moltissimo…. Se distruggerai attraverso i tuoi vaticini questo popolo» (Bamidbar 22; 17). Un uomo del suo calibro, benché temuto, non può andare lontano, non può fare molta strada contro il volere divino! Nella parashà notiamo che da ogni angolazione in cui Bil’àm si sporgesse per vedere meglio l’accampamento di Israele e meglio maledirlo, le sue parole si tramutavano da maledizioni in benedizioni.

«Ma tovu ohalekha Ja’aqov, mishkenotekha Israel […]» – «Come sono belle le tue tende oh Giacobbe e i tuoi Santuari oh Israel […]» (Bamidbar 24;5) questa è l’ultima maledizione-benedizione che rivolge al popolo, dopodiché viene cacciato da Balaq.

I commentatori spiegano che le tende simboleggiano le scuole e i luoghi dove si studia Torà, mentre i santuari i luoghi dove si prega. Con lo studio della Torà, l’osservanza dei suoi precetti e le tefillot, ‘am Israel sopravvive ad ogni maledizione, anche quelle che avrebbe dovuto lanciare Bil’am.

 

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashat Chuqat

- Parashat CHUQAT -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Nella parashà di Chuqat troviamo un lungo elenco di mizvot e la narrazione di avvenimenti, soprattutto negativi, che hanno caratterizzato il comportamento del popolo durante la permanenza di quaranta anni nel deserto.
Il termine choq da cui deriva la parola chuqat, viene tradotto letteralmente legge statuto, ma in realtà deriva dal verbo le- chaqek che significa scolpire/incidere sulla pietra.
Tutto ciò che è scolpito sulla pietra non può essere facilmente cancellabile, quindi, anche questo tipo di mizvot hanno un valore eterno e servono a dimostrare il sentimento di ogni appartenente al popolo di Israele.
Infatti, se per ogni altro tipo di mizvà abbiamo il diritto di poterci interrogare sulla sua origine e sul suo significato, per i chuqim, non possiamo farci queste domande o, per meglio dire, possiamo chiedercelo ma nessuno ci confermerà la nostra ipotesi.
Essi – i chuqim – infatti, hanno lo scopo di esplicitare il legame del singolo con Hashem.
Tra gli episodi negativi ricordati nella parashà troviamo prima la morte di Miriam, sorella di Mosè ed Aaron, poi, la sentenza definitiva da parte di D-o che né Aaron né Mosè entreranno in Israele e, infine, la morte di Aaron, sostituito per volontà divina da suo figlio Ele’azar.
È narrato infine l’episodio in cui diversi Israeliti, a seguito di maldicenza, vengono infettati dal veleno di serpenti e, dopo che molti hanno fatto teshuvà, il Signore comanda a Mosè di costruire un serpente di rame e porlo nella tenda della Sacra Radunanza, cosi che coloro che fossero stati morsi da un serpente, fissando il serpente di rame, sarebbero potuti guarire.
Moltissimi commentatori hanno proposto le più svariate di interpretazioni, fra cui quella dell’antidoto al morso del serpente che si ricava dal serpente stesso; ma proprio come detto precedentemente, ci sono delle cose che non possono essere spiegate.
Una teoria è quella che, essendo il serpente posto su di una colonna molto in alto, coloro che volevano guardare il serpente dovevano, per forza di cose alzare gli occhi verso l’ alto.
Quel gesto, lo portava a guardare verso D-o che lo avrebbe, dopo la sua richiesta, guarito.
Come questo, tanti altri episodi, contenuti nella parashà, hanno un significato oscuro o complesso da interpretare, come l’acqua che scaturisce dalla roccia e disseta il popolo che si lamenta per la sete; è per questo motivo che tutto ciò rientra nella categoria di quelle regole o comportamenti chiamati chuqim.

 

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashat Shelach Lekhà

- Parashat SHELACH LEKHÀ -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

«Manda per te degli uomini e visitino la Terra di Canaan che Io do ai figli di Israele […]» (Bamidbar 13;1).

La parashà che leggeremo questo Shabbat narra del viaggio dei “dodici esploratori” nella Terra che diverrà poi la Terra di Israele, come il Signore D-o aveva promesso di dare al popolo sin dai tempi dei Patriarchi.

L’imperativo shelach lekhà denota già da parte del Signore una posizione antitetica a quella del popolo, che pretende che qualcuno visiti la terra, prima di iniziare le guerre di conquista.
Sia Rashì che altri commentatori spiegano il termine lekhà (lett. “per te”) dicendo che è una conseguenza di «quello che tu e che il popolo avete chiesto» che Io ti ordino di mandare ad esplorare la Terra.

Il ritorno degli esploratori all’accampamento è caratterizzato da conseguenze catastrofiche: il popolo sarà punito, con una sentenza irreversibile, perché ancora una volta manifesta mancanza di fiducia in D-o. Essi rimarranno quaranta anni nel deserto, affinché  la vecchia generazione, quella uscita dall’Egitto non entri nella Terra di Israele, se non Giosuè e Calev, che furono gli unici a manifestare la volontà di conquistare quella terra, con l’aiuto incondizionato di D-o.

‘Am Israel era da poco uscito dall’Egitto, dove aveva trascorso quattrocento anni in schiavitù, a contatto diretto con una popolazione idolatra, che vedeva nelle proprie divinità solamente una forma di vano egoismo e personalizzazione voluta dai capi del popolo. Essi – gli egiziani – credevano nelle varie divinità soltanto perché obbligati dalle loro autorità, ma in esse, non riponevano fiducia alcuna.
Il popolo ebraico, per quanto avesse assistito a manifestazioni incredibili da parte del D-o unico, il quale attraverso il Suo operato aveva salvato Israele dalla schiavitù, facendolo uscire verso la libertà, aveva ancora un atteggiamento legato a quelle tradizioni.
Piangere per una cosa senza fondamento: «[…] e il popolo pianse quella notte […]» (Bemidbar 14;1) sintetizza la scarsa maturità e la poca consapevolezza nei propri mezzi del popolo, giudicati da Hashem non idonei a partecipare attivamente del progetto della conquista della terra.

Le parole di Giosuè e Calev: «è vero che è una terra abitata da giganti, è pur vero che vi sono in essa molte difficoltà per essere conquistata, ma con l’aiuto di D-o, noi riusciremo» (Bamidbar 14; 8-9) manifestano, da una parte la conferma di ciò che avevano detto gli altri dieci esploratori, dall’altra però incutevano nei cuori del popolo la fiducia necessaria, sia in se stessi, sia e soprattutto in D-o che aveva fatto una promessa storica e che, come aveva mantenuto tutte le altre, avrebbe sicuramente mantenuto anche questa.

Non a caso, secondo i commentatori, “quella notte” sarebbe la notte del 9 di Av, giorno in cui, molti secoli dopo sarebbero stati distrutti sia il primo che il secondo Bet Hamiqdash di Gerusalemme.

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

Parashat Behaalotekhà

- Parashat BEHAALOTEKHÀ -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Questo Shabbat leggeremo nella parashà settimanale una serie di avvenimenti di importanza differente.

Si comincia con la mizvà del Cohen gadol di preparare la menorà alla sua accensione di tutti i giorni, continuando con quella della consacrazione dei Leviti, di Pesach shenì (l’opportunità di offrire il sacrificio pasquale un mese dopo Pesach per coloro che nella data destinata si trovavano in condizioni inadeguate all’offerta); torviamo poi le istruzioni e i preparativi da mettere in atto in guerra e della mizvà di suonare le trombe d’argento, insieme allo shofar per richiamare il popolo all’attenzione (sia di cose buone che meno buone).

Assistiamo, tuttavia, ad uno strano episodio a cui solitamente si attribuisce poca importanza; esso consiste nel fatto che due uomini del popolo – Eldad e Medad – iniziano a fare pratica di profeti in mezzo all’accampamento. Giosuè, impressionato dall’atteggiamento dei due, corre da Mosè a riferirgli ciò che sta accadendo chiedendogli di farli arrestare.
Mosè invece reagisce in modo inaspettato, con una risposta sbalorditiva. Egli, infatti, non solo rimane impassibile, ma quasi rimprovera Giosuè di essere troppo geloso per lui. Egli continua la sua risposta da grande uomo saggio, dicendo: «Magari tutto il popolo di D-o profetizzasse!!! Perché il Signore ha posto in ognuno di loro il Suo spirito» (Bamidbar 11; 29).
La circostanza è piuttosto insolita, sia per il fatto che nessuno, fino a questo momento conosce questi due uomini, sia perché non sappiamo nemmeno riguardo cosa stessero profetizzando.
Bisogna quindi interrogarsi sul senso profondo dei termini profeta e profezia.
Il navì – il profeta è colui che riporta la parola di D-o; il termine “navì” da cui deriva nevuà, profezia, è una forma passiva del verbo lavò – “venire”, quindi “riportare”.
Il profeta nella tradizione ebraica non è colui che predice il futuro, bensì colui che insegna la Torà e, attraverso l’osservanza delle regole o la sua trasgressione da parte del popolo, prospetta loro un futuro, prospero o tragico.
Tutte le mattine, appena apriamo i nostri occhi, dopo il sonno notturno, abbiamo il dovere di recitare una formula di ringraziamento al Signore, per averci ridato l’anima che appartiene a Lui e che noi custodiamo nel nostro corpo per tutta la giornata.
Quell’anima è “PURA” perché appartiene a D-o ed è per questo che ogni uomo ha anche un po’ di spirito profetico.
Magari, volesse il Cielo che ogni uomo usasse la sua anima per fare del bene al prossimo, senza danneggiarlo; ci troveremmo tutti nella condizione di benefattori come furono Eldad e Medad.

Shabbat shalom

Rav Alberto Sermoneta

I genitori di Or Le-Mishpachot in visita a Venezia

OR LE-MISHPACHOT A VENEZIA


I GENITORI DI OR LE-MISHPACHOT IN VISITA A VENEZIA

Lunedì 27 maggio la Comunità Ebraica di Venezia ha ospitato un nutrito gruppo di oltre sessanta appartenenti all’associazione israeliana Or le-Mishpachot. Dopo una visita in barca che ha toccato i punti di maggior interesse della Laguna, l’itinerario si è concluso in Ghetto con la visita della Scola Spagnola.

I partecipanti, accomunati dal lutto per i propri cari scomparsi nel corso di operazioni militari in Israele, hanno incontrato il rabbino capo, rav Alberto Sermoneta, che nel suo intervento ha manifestato la vicinanza sincera della Comunità Ebraica di Venezia e di tutte le sue componenti, a maggior ragione in questa fase così delicata e angosciante.
 
Dopo la tefillà di Minchà e la lettura della Torà, rav Tamir Granot, direttore della Yeshivà Orot Shaul di Kriyat Shalom (Tel Aviv) ha condiviso con i presenti la propria testimonianza e quella dei suoi talmidim, da diversi mesi riservisti. Nel farlo, non ha mancato di ricordare i figli caduti, offrendo passi e pensieri per rafforzare tutti coloro, che hanno conosciuto in prima persona la tragicità di un lutto di questa entità.
 
In serata la cena presso il ristorante casher Ba Ghetto prima della ripartenza.

L’antico cimitero ebraico del Lido

Presentazione Sala Montefiore


L'ANTICO CIMITERO EBRAICO AL LIDO DI VENEZIA

Domenica 12 maggio, in una Sala Montefiore gremita, è stato presentato il libro L’antico cimitero ebraico al Lido di Venezia (curato dal prof. Dario Calimani, e pubblicato qualche mese fa dalla casa editrice Sillabe, in collaborazione con Opera Laboratori Fiorentini, attuale società di gestione del Museo Ebraico di Venezia).

Il volume si propone, mediante gli interventi degli autori – Dario Calimani, Giovanni Levi, Umberto Fortis e Aldo Izzo   di ripercorrerne le vicende e l’importanza storica, offrendo al lettore nuovi spunti di approfondimento, sia cronologici, per quanto riguarda lo sviluppo del cimitero antico (fondato sul finire del 1400, affiancato successivamente da quello moderno nel tardo Settecento), che letterari. L’antico cimitero ebraico del Lido, infatti, ha svolto un ruolo cruciale nell’immaginario culturale della corrente romantica europea, dilatandosi nel tempo fino ad epoche più recenti, protagonista ricco di sfaccettature e simbolismo.
 
«L’antico cimitero ebraico del Lido diventa così un’ambientazione letteraria ideale per scene d’amore e morte, e non dimentichiamo che la maggior parte dei brani letterari scelti e individuati, si vorrebbe aggiungere – appartengono ad autori che rappresentano bene lo spirito romantico. Sembra evidente che la visione del popolo ebraico cominci a modificarsi con il Romanticismo. Il popolo ebraico, reietto ed emarginato, chiuso nei ghetti, attira la simpatia degli autori romantici, con qualche eccezione, naturalmente. Il Romanticismo sembra vedere negli ebrei una delle nazioni che hanno diritto all’affrancamento e al riconoscimento della propria umanità, come ogni altro cittadino, come ogni altro essere umano: un simbolo universale di aspirazione alla libertà e all’autodeterminazione.».