Inizi l’anno con le sue benedizioni

Rosh Hashanà - Comunità Ebraica di Venezia

Inizi l'anno con le sue benedizioni

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

“Tachel shanà uvirkoteha – Inizi l’anno con le sue benedizioni”
Questo versetto sancisce la fine di un piut – una poesia liturgica che viene recitata all’inizio della preghiera serale del Rosh ha shanà.

È un augurio che continuiamo a ripetere ormai da millenni, sperando che, l’anno che sta entrando sia migliore di quello che ci sta lasciando.

Il popolo ebraico celebra il suo capodanno, non con feste danzanti o fuochi d’artificio o suoni sfrenati ma con riunioni intime sia nella sinagoga, con austere preghiere e, l’unico suono che si possa ascoltare è quello dello shofar – un corno di montone – che scandisce l’inizio del periodo penitenziale, in cui gli ebrei fanno un serio esame di coscienza ed espiano le proprie colpe, attraverso il digiuno del giorno di Kippur. 

L’altra importante riunione avviene nelle proprie abitazioni, riuniti in famiglia a festeggiare e celebrare il grande evento simboleggiato da questa giornata che è la comparsa dell’uomo sulla Terra.

Infatti, a differenza delle Tre grandi solennità, che hanno un valore esclusivamente ebraico, Rosh ha shanà e Kippur hanno un valore estremamente universale; celebrando la comparsa dell’uomo sulla Terra, mettono costui nella condizione di fare un esame e soprattutto un bilancio del proprio comportamento, ma soprattutto di guardarsi attorno per intercedere per il bene di tutti gli esseri del creato: umani e non.

Possa il Signore, Dio di ogni essere vivente, accogliere le nostre preghiere ed esaudire l’umanità attraverso la pace, l’abbondanza e di ogni nostro desiderio.

Shanà tovà umetuccà

Un buon anno pieno di dolcezze

Rav Alberto Sermoneta 

Parashot Nitzavim-Vayelech

Parashat Nitzavim-Vayelech

PARASHOT NITZAVIM-VAYELECH

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

«Attem nitzavim ha jom cullekhem […] rashekhem shivtekhem ziqnekhem Ve shoterekhem […] tappekhem neshekhem Ve gherekhà Asher bè qerev machanekha me chotev ‘etzekha ‘ad shoev memekha».

«Voi siete tutti qui oggi […] i vostri capi, le vostre tribù i vostri anziani, i vostri funzionari […] i vostri pargoli, le vostre mogli e il vostro straniero che si trova in mezzo al vostro accampamento da chi taglia la legna a chi attinge ai pozzi».

È un inizio molto particolare per una parashà.
Moshè, dopo aver pronunciato parole dure di maledizione verso chi non segue le mitzwot, si accorge che il popolo rimane attonito dinnanzi a tanta durezza; Moshè quindi li rassicura dicendo che, nonostante ciò, tutti saranno in grado di superare le situazioni difficili e rimanere in vita, senza alcuna distinzione di posizione né di grado sociale.
 
Tutto ciò grazie ad un elemento molto forte che il popolo ha: la teshuvà.
 
«Va hashevotà El levavekha»«E lo porrai sul tuo cuore» ognuno ha il dovere di imprimere nel proprio cuore le parole della Torà per comportarsi nel corso della propria vita. Secondo alcuni commentatori la parola “va ashevotà” ha come radice proprio il termine teshuvà; ossia: la teshuvà è qualcosa che si fa col cuore e non a parole. Soltanto dopo aver ricreato col nostro prossimo una situazione armoniosa e, soprattutto rispettosa possiamo essere sicuri che il Signore ha gradito il nostro operato.
 
Questo è l’ultimo Shabbat prima del grande giorno chiamato Iom ha Din il Giorno in cui il Signore giudica tutto il popolo nel più profondo del suo interiore.
 
Chi non ha paura del giudizio divino?
 
Noi ebrei sappiamo come affrontare tutto ciò e ci prepariamo, sicuri che attraverso una onesta e veritiera teshuvà, saremo perdonati. 

Shabbat Shalom

 

Rav Alberto Sermoneta 

Il Viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto e la Presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano in visita al Ghetto ebraico.

Il viceministro alla giustizia

Il Viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto e la Presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano in visita al Ghetto ebraico

Accolti dall’avv. Paolo Gnignati e dalla direttrice del museo dott.ssa Marcella Ansaldi, visita al Ghetto e alle sinagoghe del viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto e della presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano.

Il viceministro e la sua delegazione sono stati accompagnati lungo il percorso di visita del ghetto e delle sinagoghe, che rappresentano il patrimonio monumentale ebraico a Venezia.

Parashat Ki Tavò

Parashat Ki Tavò

parashat ki tavò

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

«Barukh attà ba ir u barukh attà ba saddè barukh attà be voekha u barukh attà be tzetekha» 

«Benedetto sii tu nella città, benedetto sii tu nella campagna, benedetto sii tu nel tuo entrare e benedetto sii tu nel tuo uscire».

Così si concludono le berakhot, che il Signore invia al popolo quando esso si comporta secondo ciò che viene comandato dalla Torà.
Le berakhot precedono le qelalot – le maledizioni che vengono mandate invece, nel caso in cui il popolo non segua le regole della Torà.

Leggendo ciò, potremmo sostenere che il Signore Iddio  si comporta come un semplice e banale esattore: se paghi bene, altrimenti verrai punito. Leggendo però attentamente anche i commenti, ci accorgiamo che la cosa sia nel caso positivo che negativo, ha motivi ben più profondi.

La Torà comanda delle regole fondamentali per l’esistenza degna e dignitosa sul Paese e il comportamento verso i popoli che confinano con esso. Sono regole severe e rigide, che debbono fare di un insieme di gente, un popolo e, nel nostro caso, il popolo di Israele che è guardato da tutti con circospezione.

Quando Bilam fu chiamato dal re Balaq per maledire Israele, il Signore D-o nell’ ammonirlo, disse a lui di non maledire il popolo, «Ki barukh hu» – «Poiché è un popolo benedetto!».
Il popolo ebraico è potenzialmente un popolo benedetto, secondo la promessa che D-o fece ad Abramo, nel momento in cui gli comandò di andarsene dal proprio paese, dicendo: «Vehjé berakhà» – «Sarai benedizione».

Il popolo ebraico gode della promessa eterna di D-o di mantenersi sempre un popolo benedetto.
Nulla di malefico potrà avere effetto su di esso.

Le qelalot quindi possono definirsi un ammonimento da parte divina a comportarsi sempre nel migliore dei modi, per meritare la permanenza sulla Terra di Israele, nelle migliori condizioni di vita possibili.

Rav Alberto Sermoneta 

Parashat Ki Tetzé

Parashat Ki Tetzé

parashat ki tetzé

A cura di Venezia Ebraica - Jewish Venice

La parashà di ki tetzé, che leggeremo questo shabbat, parla del comportamento che l’ebreo, sia come singolo che come popolo, deve avere nei confronti della terra di Israele; non ha apparentemente nulla a che vedere con la teshuvà.

Da questo sabato, si contano tre sabati prima di rosh ha shanà, durante i quali leggeremo le parashot di: Ki tetzé, Ki tavò e Nitzavim (quest’anno legata anche a Vajelekh).

La parola Ki tezzè significa: “Quando uscirai”; Ki tavò invece vuol dire “Quando verrai”; mentre Nizzavim “Starete dritti in piedi”. I maestri dell’ esegesi ci fanno notare che queste tre azioni corrispondono precisamente al comportamento dell’uomo nella sua vita.

Un uomo sicuro, pieno di sé esce di casa per dimostrare a se stesso ed alla società la propria esperienza e la capacità di sopravvivere senza l’aiuto di nessuno.

Un atteggiamento di orgoglio ed arroganza che presto si tramuterà in paura e insicurezza.
A questo punto si fermerà e inizierà un processo psicologico in cui egli si chiederà se il suo atteggiamento è quello ideale al comportamento di un uomo ; quindi tornerà indietro, verso la sua casa (ki tavò), dove ha ricevuto affetto, calore e soprattutto sani insegnamenti.

Tutto ciò dovrà farlo con il massimo dell’umiltà e non solo; dovrà anche sottostare (in piedi – nizzavim) ai rimproveri delle persone a lui care e che tanto hanno confidato in lui.
Soltanto dopo questo processo potrà essere pronto alla teshuvà.

Su tutto ciò noi ebrei abbiamo il dovere di riflettere per non incombere in errori che possono essere fatali al nostro perdono, confidando nell’aiuto del Signore nostro D-o.

 

Rav Alberto Sermoneta 

Parashat Shofetim

Parashat Shofetim

parashat Shofetim

A cura di Venezia Ebraica - Jewish Venice

«Shofetim ve shoterim titten lekhà bekhol shearekha»
«Giudici e funzionari porrai in tutte le porte delle tue città»
(Devarìm 16;18).
 
La nostra parashà ci insegna quanto è importante osservare la legge, ma altrettanto è avere dei giudici per amministrare la giustizia.
 
Più volte nella Torà troviamo l’ordine di amministrare la giustizia: addirittura l’imperativo risale all’epoca di Noè quando, alla conclusione del diluvio, il Signore comanda a lui e all’umanità rigenerata le “sheva mitzvot” le sette leggi noachidi e fra queste vi è l’istituzione dei tribunali.
 
Ogni città deve avere quindi tribunali e amministratori. Il termine “shoterim” al singolare “shoter” viene tradotto in ebraico moderno “poliziotto”. 
 
Il poliziotto non è altri che colui che supervisiona il comportamento del popolo, garantendo l’osservanza della legge.
 
È previsto, già in un’epoca così remota come quella in cui è stata data la Torà, un ordine nel comportamento e, soprattutto la garanzia e la tutela dei diritti e doveri dei cittadini. 
 

 

 

Rav Alberto Sermoneta 

Parashat Reè

Parashat Reè

parashat reè

A cura di Venezia Ebraica - Jewish Venice

«Reé Anokhì noten lifnekhem ha iom berakhà uqlalà. Et ha berakhà asher tishme’ù et mitzwot A’ Elo-hekhem asher Anokhì noten lifnekhem ha iom. Ve ha qelalà in lo tishme’ù et mitzwot A ‘Elo-hekhem[…]».
«Guarda oggi Io pongo dinnanzi a voi la benedizione e la maledizione. La benedizione per osservare le mitzwot del Signore vostro Dio che vi comando oggi. La maledizione se non ascolterete le mitzwot del Signore vostro Dio[…]» (Devarim 11;26).
 
Moshè torna a ripetere nuovamente le parole di Dio che comanda le mitzwot al Suo popolo. In tutta la Torà noi leggiamo dei  verbi particolari  che riguardano la shemirat mitzwot; essi sono: La ‘asot – fare; lishmo’a – ascoltare; reé – vedere; lishmor – osservare.
Alle pendici del Monte Sinai, in prossimità del mattan Torà, il popolo pronunciò la fatidica frase: “na’asé venishma’ – faremo e ascolteremo” (Shemot 24;7). 
Fu una grande prova di fede nel Signore, poiché con essa antecedeva la volontà di eseguire, ancor prima di ascoltare l’ordine.
Se facciamo caso invece alle parole con cui inizia la “professione di fede” del nostro popolo, leggiamo: “shemà Israel – ascolta Israele” (Devarim 6;4).
Si chiedono i Chakhamim il motivo per cui all’improvviso decade il verbo “la’asot – fare“.
C’è un episodio, tra i più negativi di tutta la Torà che è conosciuto come “ma’asé ha ‘eghel – il fatto del vitello“.
 
In poche parole si tratta dell’episodio del vitello d’oro. L’espressione “ma’asé” indica l’azione.
 
Moshè, resosi conto che, per mettere in pratica qualcosa di concreto il popolo non era in grado (poiché sbaglia immediatamente), comanda loro solo di ascoltare e di non fare niente prima di aver capito bene cosa fare.
 
Ogni ebreo, all’interno di una società ha delle idee che vorrebbe si mettessero subito in pratica facendole prevalere su quelle altrui. Ne nasce una competizione fra fratelli, i quali tendono a comportarsi così per emergere rispetto agli altri,  portando a fratture irreparabili all’interno della nostra società, del nostro popolo, delle nostre Comunità. Per trovare l’unità di popolo, c’è sempre bisogno di una sola guida, che non dà imposizioni ma organizza la  vita sociale.
La parashà di Reé viene sempre letta lo Shabbat che precede il capo mese di Elul, ultimo mese dell’anno ebraico.
 
Durante tutta la sua durata, dobbiamo fare una sorta di preparazione al giorno di Rosh hashanà che è chiamato yom ha-din – giorno del giudizio, in cui immaginiamo che il Signore faccia un serio esame del nostro comportamento. Il mese di Elul è considerato il periodo in cui ha Melekh ba saddé – il Re scende nel campo“. Quando un re esce dal suo palazzo per incontrare i suoi sudditi, questi si preparano per chiedere a lui tutte le loro necessità, ma dall’altro lato il re controlla come loro si comportano, soprattutto prendendo in considerazione il rendimento delle loro opere.
Cosa dobbiamo mostrare noi al nostro Re che scende in mezzo al nostro popolo, se non l’osservanza delle mitzwot e le opere di bene?
 
Sicuramente non dobbiamo farci vedere arrivisti, arroganti e litigiosi! Egli vuole che noi formassimo una “agudà achat – unico gruppo” . Cerchiamo quindi di riflettere sul nostro comportamento riguardo questo momento particolare dell’anno.
 
Kippur, che segna la conclusione di questo lungo periodo, non ha valore se prima non ci siamo resi conto di ciò che abbiamo sbagliato,  verso il nostro prossimo e verso Dio.
Chiedere perdono a Dio non serve se prima non ci siamo riconciliati con i nostri fratelli!
Il kelal Israel – la congregazione di Israele, considerata sacra, non sta nel mostrare la nostra bravura, quanto nel vivere aiutando chi ha più bisogno di noi, collaborando per il bene di tutti.
L’espressione rabbinica “agudà achat” vuole esprimere quindi la collaborazione di uno per l’altro senza competitività, per il bene di tutti.
 
Soltanto quando riusciremo a comprendere ciò e ad attuarlo, potremo avvicinarsi al Re in mezzo al campo, con dignità e responsabilità di popolo.
 

Rav Alberto Sermoneta 

Il ministro Sangiuliano e il presidente Zaia in visita al ghetto

Ministro San Giuliano visita Museo ebraico

Il ministro Sangiuliano e il presidente Zaia in visita al ghetto

Il Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, accompagnato dal presidente della Regione Veneto Luca Zaia e dal soprintendente Fabrizio Magani ha visitato il cantiere del Museo Ebraico in Ghetto e le cinque sinagoghe.

Ad accoglierli e guidarli il presidente della Comunità ebraica Dario Calimani, la vicepresidente Sandra Levis, la direttrice del Museo ebraico Marcella Ansaldi, il responsabile del fundraising dedicato al Museo David Landau e il direttore dei lavori, l’architetto Alessandro Pedron.

Nell’occasione il ministro ha assicurato che il Governo si impegnerà affinché il progetto relativo al Museo ebraico possa essere portato a compimento. “Troveremo la linea dove allocare la richiesta di queste risorse”.

Scola Italiana, un tesoro riconquistato

Scola Italiana, un tesoro riconquistato

Scola Italiana, un tesoro riconquistato

Edificata nel 1575, la Scola italiana è una delle cinque sinagoghe dell’antico Ghetto di Venezia. Un simbolo d’identità ebraico-veneziana riconoscibile anche dall’esterno, per via delle cinque finestre che ricordano la Scola Grande Tedesca e per la cupoletta barocca che sovrasta l’abside. Ma anche un patrimonio di tutta la città. Questo lo spirito che ha innescato il processo di restituzione “a nuova vita” della Scola, grazie a un contributo dell’organizzazione Save Venice che è andato a inserirsi nel quadro dei lavori di restauro in atto nell’area del complesso del Museo ebraico.
Una cerimonia ufficiale celebrerà l’evento nel pomeriggio, con la partecipazione di rappresentanti delle istituzioni sia locali che nazionali. Nel frattempo, a inquadrare l’importanza di questo impegno, in una dimensione anche internazionale, una conferenza stampa ha visto intervenire il presidente della Comunità ebraica Dario Calimani, che ha illustrato le strategie di sviluppo dedicate al Ghetto, la direttrice del Museo ebraico Marcella Ansaldi, che ha rappresentato la storia e le specificità della Scola Italiana, Melissa Conn di Save Venice, che ha introdotto i progetti dell’organizzazione e il lungo rapporto di sostegno offerto alla Comunità, David Landau, che ha affrontato tra le altre la sfida del fundraising, il direttore dei lavori Alessandro Pedron.
“Siamo qui oggi per festeggiare la riconsegna della Scola Italiana restaurata, e per ringraziare di cuore Save Venice. Ci emoziona particolarmente la restituzione, oggi, di un primo importante lotto dell’imponente restauro in corso ormai da tre anni nel Ghetto di Venezia: un’area museale e sinagogale di circa 2000 metri quadrati”, la soddisfazione di Calimani nel commentare i risultati raggiunti. A costruire la Scola, ha poi ricordato, furono gli ebrei di origine italiana per mantenere la tradizione e i riti che li distinguevano dagli ebrei di origine tedesca che, in fuga dalle persecuzioni in corso nell’Europa Centrale, “si erano rifugiati nel territorio di Venezia e si erano costruiti la Sinagoga Grande Tedesca e la Sinagoga Canton”. Una situazione insieme di “rifugio e segregazione”, oltre che di “separazione e protezione”. La Scola Italiana è stata da allora centro di vita, di religiosità e di studio “per più di tre secoli e mezzo”. Calimani non nasconde l’emozione: “Rientriamo in possesso di una sinagoga, splendida nella sua sobrietà, che non abbiamo mai abbandonato, come non abbiamo mai abbandonato nulla del patrimonio religioso, di cultura e di vita di cui siamo orgogliosi eredi. Qui hanno pregato e studiato i nostri avi. Siamo una comunità che si misura con i grandi numeri di un tempo. I 5 o 6 mila ebrei del ‘600 sono oggi ridotti a una comunità di circa 400 persone. L’eredità culturale e artistica di quattro congregazioni (Tedesca, Italiana, Levantina, Spagnolo-Portoghese) ricade oggi sui pochi che siamo. E tuttavia non abbiamo mai rinunciato e non intendiamo rinunciare a conservare, a vivere e a trasmettere vita e cultura”.
“Umile in atto e con sicura fede qui sui preci a depor venga ogni pio ed anco allor che volge altrove il piede sempre tenga il pensier rivolto a Dio” si legge nel piccolo ingresso della Scola, un ammonimento dal gusto ottocentesco che è la porta d’accesso a un ambiente nobile e severo. E questo, come è stato evidenziato quest’oggi, anche “per la semplice austerità dei suoi banchi, per la notevole Arca Sacra ornata da eleganti fregi lignei e culminante in un pesante fastigio, per il bel pulpito settecentesco che sporge da un’abside poligonale”. Un tesoro che torna ora a svelarsi a tutti.

Fonte: Moked.it / Pagine Ebraiche

Il Ghetto di Venezia e i suoi tesori di identità

Pozzo in campo di Ghetto

Il Ghetto di Venezia e i suoi tesori di identità

Valorizzare l’antico ghetto ebraico di Venezia e i suoi tesori, partendo dalle cinque sinagoghe e dal Museo attualmente in corso di restauro. È l’obiettivo di un accordo siglato tra le Comunità ebraica e Opera Laboratori, una delle più importanti realtà imprenditoriali italiane del settore culturale. Al centro dell’intesa la realizzazione di supporti multimediali, una piattaforma informatica integrata per le prenotazioni e la prevendita, un sito web e un call center dedicato oltre a mostre e iniziative, nuove guide cartacee e virtuali che permetteranno di completare l’esperienza di visita.
Una collaborazione che guarda lontano, afferma il presidente della Comunità ebraica veneziana Dario Calimani. “Il nuovo Museo ebraico – rileva infatti – richiede che si sviluppino sin d’ora attività e iniziative nuove, che siano in grado di risvegliare nuovo interesse attorno al Ghetto di Venezia e alla sua storia. Per la grande esperienza che ha acquisito a livello nazionale, Opera Laboratori è in grado di aprire nuovi percorsi gestionali e nuovi progetti culturali che consentiranno una fruizione moderna dei tesori della Venezia ebraica”. Beppe Costa, presidente di Opera Laboratori, definisce “un onore poter collaborare con la Comunità ebraica di Venezia in un luogo storico come il primo ghetto d’Europa: lo facciamo in punta di piedi grazie a delle professionalità specializzate nella gestione e valorizzazione di realtà che sono ben diverse da un museo tout court ma altrettanto ricche di storia, arte e tradizione”. L’obiettivo, anche attraverso i laboratori tecnici e di restauro a disposizione, è di offrire “un valore aggiunto a dei monumenti e delle collezioni che parlano al cuore oltre che agli occhi”.
 
Fonte: Moked.it / Pagine Ebraiche