Comunicato Stampa relativo alla vicenda Ateneo Veneto – Amnesty International

COMUNICATO

-COMUNICATO STAMPA-

COMUNICATO STAMPA DELLA COMUNITA’ EBRAICA DI VENEZIA RELATIVO ALLA VICENDA ATENEO VENETO – AMNESTY INTERNATIONAL

La Comunità Ebraica di Venezia, a chiarimento dei recenti eventi riguardanti la presentazione, da parte di Amnesty International, del rapporto “Ti senti come se fossi un subumano – Il genocidio di Israele contro la popolazione palestinese a Gaza”, tiene a precisare che non ha mai proposto né chiesto censure sull’evento organizzato da Amnesty. 
La sola vibrata protesta ha riguardato l’impiego superficiale del termine ‘genocidio’ per descrivere una guerra terribile e sanguinosa che si sta combattendo da due parti con conseguenze spaventose, nel tempo, per tutti i civili coinvolti. 
Si contesta, nel contempo, la narrazione unilaterale proposta da Amnesty, in cui il massacro disumano di civili del 7 ottobre è considerato solo incidentalmente, per notare che la premessa non giustifica le conseguenze. E cadono così nel silenzio di Amnesty gli stupri, le mutilazioni, le violenze inaudite su minori, e cade nel silenzio il rapimento di ostaggi tuttora nelle mani di Hamas e tuttora torturati e stuprati.
Amnesty ha tutto il diritto di presentare le sue verità, ma esiste anche il diritto di contestarne la grave parzialità, e il pericolo che tanta unilateralità costituisce per la diffusione del pregiudizio e dell’odio nell’opinione pubblica. 
Non si tratta solo di proporre posizioni anti-israeliane. Si tratta purtroppo di proporre indirettamente visioni che favoriscono il già grave fenomeno dell’antisemitismo dilagante.
La Comunità Ebraica di Venezia garantisce , infine, che mai è stato nelle sue intenzioni porre in atto gesti o azioni di contestazione aperta nei confronti di qualsiasi evento, pur deplorevole, in atto. Non è nelle corde della nostra Comunità. Di fronte al paradossale e al tendenzioso possiamo solo astenerci dal partecipare.

Parashà VA JESHEV

-Parashà VA JESHEV-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT VA JESHEV

Nella parashà di Va Jeshev si narra la storia di Josef, figlio di Giacobbe e della donna che egli amava di più – Rachele. Nella Torà troviamo scritto, proprio nei primi versi della parashà, «Elle toledot Ja’akov Josef […]» – «Questa è la storia di Jaakov, Josef […]» (Bereshìt 37;2). L’aspettativa è quella di leggere la storia di Yaaqov/Israel. Rashì interpreta il versetto di sopra sostenendo che quanto è accaduto a Giacobbe, accadrà a Giuseppe; cioè: Giacobbe andò in esilio fuori della terra di Canaan, anche Giuseppe andrà in esilio fuori della terra di Canaan. Giacobbe era ricercato da suo fratello per essere ucciso, a causa della benedizione della primogenitura, anche Giuseppe verrà ricercato dai suoi fratelli per essere ucciso a causa della predilezione da parte di loro padre nei suoi confronti. Giacobbe visse lontano da suo padre per venti anni, anche Giuseppe visse lontano da suo padre per venti anni e così via per tante altre cose. Josef, tuttavia, non viene chiamato Av (lett. “patriarca”), bensì  tzaddik – giusto.

Lo tzaddik, secondo i commentatori ha degli oneri maggiori rispetto al patriarca; egli è colui che mette a repentaglio la sua vita per salvare il suo popolo o addirittura l’umanità. 

Secondo tutti gli esegeti, esiste un nesso ben profondo fra la festa di Chanuccà, e la parashà di va jeshev; per meglio dire c’è un nesso ben profondo fra la vita e le opere di Giuseppe e la vita e le opere dei Maccabei, eroi del popolo ebraico le cui gesta vengono celebrate proprio di Chanuccà.

Tutti noi conosciamo le gesta eroiche dei fratelli Asmonei, chiamati in seguito con l’appellativo di Maccabei per la loro forza e tenacia nel combattere il nemico. La festa di Chanuccà celebra il riordinamento di uno stato confusionario, provocato dalla cultura ellenica che pretendeva di inculcare i loro usi e tradizioni alle popolazioni da loro conquistate e quindi anche alla popolazione ebraica che viveva in terra di Israele. I Maccabei attraverso la loro ribellione a quelle tradizioni pagane, che fra l’altro tanto successo avevano riscosso anche fra alcuni ebrei (soprattutto nelle classi dei nobili), riescono a riaccendere le “luci” per far chiarezza sulle millenarie tradizioni ebraiche che venivano osservate ininterrottamente, sin dai tempi dei nostri patriarchi, ripristinando così anche il culto del monoteismo.

La loro identità ebraica, non fu mai nascosta, anche a costo di rimetterci la propria vita, allo stesso modo di quando Giuseppe venduto in Egitto – paese conosciuto da tutte le popolazioni dell’epoca per la sua dedizione proverbiale al paganesimo, sin da schiavo presso la casa del ministro Potifar, sia nella condizione di carcerato perché calunniato dalla moglie di Potifar di aver tentato di violentarla, sia da viceré d’Egitto, mai negò le sue origini e le sue tradizioni ebraiche «na’ar ‘ivrì anokhi» – «io sono un fanciullo ebreo».

Il paganesimo è il simbolo dell’ assoggettamento dell’uomo sul suo fratello, la negazione dei diritti umanitari e la supremazia di un potere sull’altro (ci basti pensare soltanto sull’istituzione dei sacrifici umani in uso presso quei popoli o all’istituzione della schiavitù), l’ebraismo ne è l’esatto opposto.

Chanuccà, potremmo definirla l’esaltazione del monoteismo e la sconfitta delle imposizioni di un uomo sul suo prossimo; se ogni popolo libero ha una sua bandiera, la bandiera del monoteismo può essere sicuramente la lampada di Chanuccà, che da mercoledì sera inizieremo ad accendere per otto sere consecutive.

 

Shabbat shalom,
Chag Chanuccà sameach,
Rav Alberto Sermoneta

Parashà VA ISHLAKH

-Parashà VA ishlakh-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT VA ISHLAKH

La figura di Giacobbe, analizzata sotto molti aspetti, positivi o negativi, viene ora completamente ribaltata dall’inizio di questa parashà, fino al termine del libro di Bereshìt.

Nelle parashot precedenti Ya’aqov, egocentrico, giovanile, con un senso di liberalismo assai accentuato, si impossessa di ciò che non gli appartiene, discute accanitamente con Lavàn per i propri interessi personali e familiari. Senza alcuna nostalgia o rimorso, egli trascorre venti anni lontano dai suoi genitori, anziché qualche giorno.

In Va ishlakh, Giacobbe è invecchiato, pieno di vigore e forza d’animo nonostante gli anni, dedito alle preoccupazioni che i figli possono recare ad un genitore.

A Giacobbe verrà cambiato il nome in Israel, un nome che da questo momento in poi lo responsabilizza ancora di più; egli è divenuto il capostipite dell’omonimo ‘Am Israel che D-o, in una notte lontana, aveva profetizzato a suo nonno Abramo. Giacobbe, divenuto degno di quel nome, sa che la sua vita deve subire una svolta importante, sa pure che da Israel, deve preoccuparsi dei suoi figli e di dare loro un esempio, per essere il popolo “speciale possedimento” così come D-o lo proclamerà quando, alle pendici del Sinai, si sottometterà alla Sua volontà, accettando pienamente la Sua Legge. Giacobbe che cammina sotto il peso della zoppia, dopo essere stato “’akev – contorto” moralmente (come fu definito da Esaù), ma retto fisicamente; ora è contorto fisicamente ma retto moralmente.

Israel è definito Jeshurun colui che è retto e, si comporta rettamente agli occhi di D-o. per questo che noi ebrei, che siamo sotto gli occhi di tutti, abbiamo il dovere di ricevere l’esempio di Giacobbe nostro Padre e preoccuparci della vita e dell’insegnamento dei nostri figli, senza preoccuparci di gareggiare con la società che ci circonda e che ci stimola a fare tutt’altro che camminare al passo di qualsiasi altra cosa all’infuori che dei nostri figli.

 

Shabbat shalom,
Rav Alberto Sermoneta

Parashà vayetze

-Parashà VA jezze-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

PARASHAT VA JEZZE
 

Nella parashà Va-jezzè si racconta la fuga di Giacobbe verso il paese dello zio materno Labano, per fuggire dalla vendetta di Esaù, al quale aveva sottratto la primogenitura.

Nei primi versetti troviamo il sogno della scala che egli fa durante il viaggio. Fra le richieste che Giacobbe rivolge al Signore al risveglio, la più importante è la preghiera di protezione, affinché possa rientrare a casa di suo padre “be shalom – in pace”. I Commentatori fanno notare che le richieste dei Giusti si limitano ai bisogni strettamente personalimateriali morali.

Non dimentichiamoci che secondo una tradizione cabalistica, il termine Shalom è uno dei nomi di D-o; Giacobbe chiede che il Signore non si allontani mai da lui, nonostante la diaspora dove vivrà per venti anni, a contatto con il paganesimo.

Per quanto riguarda le richieste materiali, Giacobbe, prega il Signore di procurargli solo pane per sfamarsi e di un abito per vestirsi e in grazia di ciò, riconoscerà a Lui la decima parte di tutti i suoi averi.

Giacobbe ritornerà dopo venti anni e sarà ricco e benedetto moralmente, tanto da ricevere dal Signore Iddio, il cambiamento del proprio nome, da Ya’àqov in Israel, quindi capostipite del popolo ebraico.
 

Shabbat shalom,
Rav Alberto Sermoneta

Parashà Toldot

-Parashà Toldot-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

La settimana scorsa la Torà ci ha presentato un Isacco completamente diverso da suo padre, sia nel modo di comportarsi nei confronti della sua famiglia, sia nei confronti della società. Isacco ha un carattere totalmente introverso e remissivo, gli viene presentata una donna che lui sposa, con la quale metterà al mondo due gemelli: Giacobbe ed Esaù, i quali, come sua moglie Rebecca, non avranno una grande considerazione di lui.

Isacco verrà ingannato per la sua vecchiaia e per la sua cecità, sia da Rebecca che da Giacobbe stesso, che attraverso il travestimento da Esaù, dietro consiglio della madre, prenderà al suo posto la benedizione per la primogenitura.

Isacco è un personaggio mite, ma che vive una vita superficiale, dedicandosi poco alle virtù che erano caratteristica di Abramo.

Leggendo la sua vita, nelle due parashot – Chajè Sarà e Toledòt – si può conoscere un personaggio passivo davanti a tutto e che ripete gli errori di suo padre, senza però dare troppe spiegazioni; si può dire che egli vive un po’ all’ombra di Abramo.

Se i tre Patriarchi hanno istituito, secondo il midrash, le tre tefillot giornaliere: Abramo – shachrit, Giacobbe – ‘arvit, Isacco istituisce la tefillà di minchà, che è considerata fra le tre, quella di ripiego; essa ha infatti un tempo molto breve per essere recitata e si trova fra le due grandi colonne della liturgia, fra i due momenti fondamentali della giornata, mattina e sera. Secondo i nostri Maestri è forse la tefillà più importante fra le tre, perché, per prima cosa avendo il tempo di recitazione più ristretto, obbliga una maggior attenzione nel recitarla. Essa scandisce anche il passaggio dalla forza della giornata solare, alla fiacca dovuta alla fatica di una giornata trascorsa nel lavoro, nello studio e nella dedizione alla famiglia.

Secondo un’interpretazione cabalistica, la tefillà di minchà, ci fa raggiungere il livello più alto di spiritualità, rispetto al resto della giornata e delle altre due preghiere.

Proprio come il Patriarca Isacco, che essendo l’oggetto dell’Akedà (il sacrificio non-sacrificio) e quindi l’essere posto sul mizbeach – l’altare dei Sacrifici, considerato Kodesh ha kodashim (Santo dei Santi), aveva raggiunto un livello di spiritualità, talmente alto, che tutto ciò che era umano e materiale, veniva da lui considerato di scarso interesse.

È forse questo uno dei motivi del suo disinteressamento per tutto ciò che gli girava attorno.

 

 

Shabbat shalom e Chodesh Tov,
Rav Alberto Sermoneta

Parashà Vajerà

-Parashà Vajerà-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Se in Lekh lekhà Hashem mette alla prova Abramo con prove graduali e impegnative, nella parashà di questa settimana, egli si troverà ad affrontare lo scoglio più duro.

I nostri Maestri sostengono che la prima e l’ultima delle dieci prove cui viene sottoposto Avraham iniziano entrambe con l’ingiunzione lekh lekhà (lett. “va per il tuo bene”).

Nella prima Hashem richiede ad Avraham di rinunciare al proprio passato; con la seconda, il Signore gli chiede di rinunciare a suo figlio, quindi alla sua discendenza – al suo futuro.

Siamo abituati a sentire, non sempre in ambiente ebraico, chiamare quel brano della parashà settimanale, con il nome di Sacrificio di Isacco, ma mai con la sua reale definizione “’aqedat Izchaq – legatura di Isacco”. Non si tratta, infatti, di un sacrificio, ma di una legatura con cui culmina il racconto in questione; in tutto il brano non si parla mai e poi mai di morte o di uccisione ma di un’espressione «[…] ve ha’alehu sham le ‘olà ‘al achat he harim» – «[…] fallo salire per me una salita su uno dei monti» (Bereshìt 22; 2)

Questa interpretazione viene data dal Rav Kuk, uno dei rabbini più moderni della tradizione ebraica.

Rav Kuk sostiene che l’intento divino sia quello di dare sia ad Abramo che a Isacco una regola di dignità ebraica e cioè di insegnare loro che persino davanti alle cose dolorose, bisogna reagire con dignità, per essere da esempio presso altri popoli, che dopo sciagure e disgrazie si auto annullano, arrivando così al proprio annientamento.

Molti altri sostengono invece che questo sia un messaggio al mondo dell’epoca, una società pagana che viveva sulla prevalenza del forte sul debole e del potente su chi era inerme, che la volontà divina sia quella di voler la vita di ogni uomo, considerato particolarmente caro a D-o, poiché ne rispecchia la propria immagine.

Il sacrificio-non sacrificio di Isacco è il simbolo del monoteismo in assoluto e di un D-o che non vuole la morte delle Sue creature, ma il loro bene.

Racconta un midrash che nel momento in cui D-o dice ad Abramo di non offrire suo figlio in sacrificio, Abramo si adira contro di Lui, chiedendogli di completare la mitzwà che gli era stata chiesta; il Signore allora gli manda un capro che verrà offerto in sacrificio al posto di Isacco, che nel corso della storia simboleggerà la vittoria del bene e dell’amore su ogni altra cosa.

Quello stesso montone con il cui corno, il giorno di Rosh ha shanà, suonandolo, ricordiamo all’Eterno la ‘aqedat Izchaq, e attraverso l’amore che Egli ha nutrito per i Patriarchi, possa salvare il nostro popolo e salvarci dalle nostre cattive azioni.

 

Shabbat shalom,
Rav Alberto Sermoneta

Parashà Lech Lechà

-Parashà Lech Lechà-

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

 

Nella parte finale della parashà leggiamo di un patto istituito da D-o con Abramo: all’età di cento anni Abramo avrà una discendenza dalla moglie Sara.

Tale patto prende il nome di “berit milà” – il patto della circoncisione.

Non esiste, nella storia plurimillenaria del nostro popolo, chi non è circonciso e non abbia fatto circoncidere i propri figli maschi, anche mettendo a rischio la propria la vita, nelle epoche in cui questa mitzvà è stata osteggiata e messa al bando.

La milà è per gli ebrei, anche quelli più lontani, un qualcosa di irrinunciabile e di particolarmente sacro, tanto da far dire ai Maestri del Talmud che se su un piatto di una bilancia si trovasse la sola mizvà della milà e sull’altro tutte le altre mizvot, quello su cui poggia la milà, peserebbe più dell’altro che contiene tutte le altre mizvot.

Si dice nel midrash, che le madri di Israele hanno un grande merito; esse, nel momento della milà dei propri figli, li offrono al moel, con serenità, speranza e fiducia in D-o che tutto avvenga sotto la Sua protezione e nel migliore dei modi, cosa che per una madre, vedere il proprio figlio sottoposto ad una simile cosa, tanto più appena nato, è considerato qualcosa di insopportabile.

Oggi a distanza di tre millenni circa da quell’evento, noi ebrei ci troviamo a difendere le accuse di barbarie che ci sono mosse da chi di ebraismo non conosce nulla, ma soprattutto agisce, attaccando questa pratica religiosa e per noi così sacra, considerata invece da famosi studiosi di medicina, una importante prevenzione ad alcune gravi forme di patologie mediche.

Noi, però, continuiamo ad andare avanti per l’incolumità delle nostre tradizioni, proprio come Abramo nostro padre che, nonostante le forme di ostruzionismo che ricevette nel suo percorso, continuò a proseguire il suo cammino che lo portò ad essere considerato il capostipite del Monoteismo.

Shabbat Shalom, 

Rav Alberto Sermoneta

Parashat Noach

- PARASHAT NOACH -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

 

La parte fondamentale della parashà tratta degli eventi riguardanti il Diluvio Universale.

Il Signore stipula con Noè il patto eterno di non distruggere mai più il mondo che aveva creato a causa delle trasgressioni dell’uomo.

Nel libro di Bereshit leggeremo più volte di beritòt fra D-o e coloro che saranno i grandi uomini della storia dell’epoca.

Ognuno di questi è suggellato da un segno particolare; nel caso in questione il simbolo è l’arcobaleno.

Nel momento in cui Noè si accinge ad accettare il patto con D-o, alzando gli occhi al cielo, vede questo arco (in ebraico “keshet”) che simboleggia la riappacificazione fra D-o e l’uomo.

Perché proprio l’arcobaleno?

Era un’usanza dei popoli antichi puntare verso se stessi le armi in segno di pace. Il diluvio può essere considerato in un certo senso, una guerra di D-o contro l’umanità e le sue trasgressioni.

Dopo aver fatto giustizia, D-o, riappacificandosi con l’Umanità, offre loro un chiaro ed inequivocabile gesto di non belligeranza, simboleggiato proprio dall’arcobaleno rivolto verso Se stesso.

«[…ֿ] Lo osif ‘od le kallel et ha adamà ba ‘avur ha adam»

 «[…] Non distruggerò più la terra a causa dell’uomo» (Bereshìt 8; 21) 

 Questa è una solenne promessa di D-o che ha lo scopo di rassicurarci sulla sorte del nostro pianeta, che non verrà più distrutto da D-o come avvenne al tempo di Noè, sta ora a noi esseri umani a saperlo tener da conto…

Shabbat shalom,

Rav Alberto Sermoneta

PARASHOT VEZOT HA BERACHA E BERESHIT

- PARASHOT VEZOT HA BERACHA E BERESHIT -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -


Con la parashà di Vezot ha berakhà si conclude tutto il ciclo della lettura della Torà. In essa è narrato il discorso di commiato che Moshè rivolge a tutto il popolo prima di morire e, soprattutto prima che esso lasci definitivamente il deserto, dove è divenuto Popolo sotto ogni punto di vista.
Come un padre si rivolge ai figli prima di morire, così Moshè si rivolge al popolo, al pari di Yaaqov avinu nel corso della parashà di Vayechì.

Nella tradizione ebraica si usa non finire mai la lettura della Torà, senza ricominciare immediatamente. Si legge infatti subito la prima parashà: Bereshit.
In essa viene narrata la Creazione del mondo e la comparsa dell’uomo sulla terra.
Fanno notare i commentatori che l’ultima lettera della Torà è la lettera lamed “ISRAEL” (L) mentre la prima è la bet “BERESHIT” (B).
Se leggiamo insieme queste due lettere viene fuori la parola LEV che significa CUORE. Attenzione, soltanto se viene letto partendo dalla fine del testo della Torà verso l’inizio.
Questo significa che il cuore dell’ebraismo batte in funzione dello studio della Torà e dell’osservanza delle sue mitzwot.
La nostra vita è fatta a cicli ed è per questo motivo che non basta arrivare alla fine di un percorso per aver compiuto il proprio dovere, è necessario ricominciare daccapo, anche se non sappiamo di concluderlo nuovamente.
L’augurio è quello di concluderlo e ricominciare per molti anni.

Chag sameach e Shabbat shalom.
Rav Alberto Sermoneta

SUCCOT 5785

SUCCOT 5785

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

 

«Ufros alenu succat shelomekha»
 «E stendi su di noi la succà della Tua pace»

La festa di Succot conclude il ciclo delle festività del mese di Tishrì, iniziate con Rosh ha shanà.
È chiamata dalla Torà con il solo termine chag ed è il simbolo per eccellenza della gioia.
«Ve samachtà be chagghekhaֲ […]» (lett.”e gioirai nella tua festa”) è l’espressione della Torà – che troviamo in Devarìm 16;14 – , con cui siamo esortati a gioire a Succot; non capita per nessun’altra ricorrenza della Torà di trovare un simile invito.
Succot è la festa del raccolto del prodotto dei campi, rappresenta quindi la ricchezza economica a cui aspira chi lavora sodo tutto l’anno. Una mietitura abbondante, sia in senso materiale, che spirituale, può portare l’individuo naturalmente a rallegrasene, concentrandosi, e prendendo sempre più consapevolezza, che tutto avviene per volontà divina.
I Maestri ci consigliano di leggere la meghillà del Kohelet, testo che fa riflettere profondamente il singolo sulla precarietà della sua esistenza terrena. La motivazione di questa aggiunta è quella di rammentare che, nonostante l’abbondante prodotto campestre e l’eventuale prosperità da esso derivante, l’uomo deve saper accontentarsi di ciò che gli viene dato.
Il valore quindi della festa deve incoraggiare l’uomo a non allontanarsi mai troppo da quella che è la sua dimensione e dall’aiutare il suo prossimo, riflettendo sul rapporto tra lui e il suo Creatore.

Moadim le simchà

Shabbat shalom,

Rav Alberto Sermoneta