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Parashat Vayeshev

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

E si avvicinò a lui Giuda dicendogli: “il tuo servo dirà una cosa alle orecchie del mio signore e non si adiri contro il suo servo, poiché tu sei come il faraone”

E’ l’inizio della parashà; già come inizio, denota, nel lungo discorso che Giuda fa a Giuseppe, ancora sconosciuto ai fratelli, una serie di doppi sensi.

C’è da sottolineare che quando una persona parla con un’altra, soprattutto se quest’ultima è più importante di lui, non gli si rivolge dicendo “dirò una cosa alle tue orecchie”.

Parlare all’orecchio di qualcuno è un’espressione che sottolinea di far in modo che ciò che sta per essere detto, deve essere ascoltata e compresa, quasi a forza.

Un suddito, non si rivolge mai al re o al ministro dicendogli: “ascolta per bene ciò che sto per dire”;

questo però è il comportamento di Giuda con Giuseppe.

La parashà di mikkez, che abbiamo letto la scorsa settimana, termina con la calunnia di Giuseppe a Beniamino, per avergli rubato il calice dove egli beveva e faceva atti di stregoneria. Dopo la richiesta di scuse da parte degli altri fratelli e la richiesta di costoro di rimanere tutti insieme in Egitto come schiavi, Giuseppe insiste chiedendo come ostaggio solo Beniamino.

Poi, l’espressione “non si adiri il mio signore” non è consona nella bocca di chi si trova in inferiorità, davanti ad una persona importante; non sembra quasi una presa in giro?

Infine “poiché tu sei come  il faraone”, come il faraone, ma non sei il faraone, oppure: sei diventato una persona perfida come sarà il faraone con gli ebrei.

Tutto ciò, inteso in questo senso, denota che quasi sicuramente Giuda ormai aveva scoperto la vera identità dell’uomo che aveva davanti: era il suo sangue;  per quanto fossero lontani da venti anni, non si dimenticano le sembianze di un fratello.

Dopo questo attacco che ha del disperato, proprio come avviene quando qualcuno non ha più  la forza né la volontà di continuare, Giuseppe capisce che è ora di smetterla e svela quindi la propria identità ai fratelli. Non c’è dubbio che l’incontro è commovente, un incontro dopo venti anni, dopo soprattutto il modo con cui i fratelli si erano comportati con lui.

Se commovente è l’incontro con i fratelli, tanto più e quello con Giacobbe, che per venti anni lo aveva creduto morto ed era sceso nella disperazione più profonda.

“Amuta ha paam – questa volta posso morire” esclama Giacobbe nel momento in cui riabbraccia Giuseppe, come a dire che per venti lunghi anni, aveva atteso il suo ritorno, o almeno una notizia su di lui.

Se si conclude bene questa avventura, se ne apre purtroppo un’altra, assai più penosa che durerà per quattrocento anni; Giacobbe con la sua famiglia scendono in Egitto, con un numero di settanta persone, ma lì resteranno fino a diventare un popolo, schiavo, senza godere di alcun diritto, se non quello della schiavitù egizia.

Moriranno per vecchiaia Giacobbe, Giuseppe e tutti gli altri della sua famiglia, ma prima di morire, in un momento di profezia, Giuseppe dirà ai suoi discendenti che il Signore li farà uscire liberi verso la Terra promessa ai Patriarchi.

Shabbat shalom,

 

Rav Alberto Sermoneta 

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