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- YOM KIPPUR 5785 -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

 

«ATTA NOTEN JAD LA POSHEIM VE JAMIN PERUSA’ LE KABEL SHAVIM»

 

Nel Talmud di Jomà, trattato che si occupa esclusivamente del giorno del Kippur, troviamo l’espressione di sopra, attribuita a Ullà figlio di Rav, con la quale si esorta colui che trasgredisce a pentirsi ed a tornare sulla giusta via.

Si immagina che il Santo benedetto Egli sia non abbia la volontà di punire i malvagi con la morte «ki lo echfoz be mot ha rasha’» – «non gradisco la morte del malvagio», ma fare in modo che costui, riconoscendo le sue colpe ed i sui errori, si penta facendo teshuvà.

La teshuvà è quindi l’elemento fondamentale che in questi giorni viene usato per garantire il perdono divino  

TU CHE PORGI LA TUA MANO AI PECCATORI E DISTENDI LA TUA DESTRA PER ACCOGLIERE COLORO CHE SI PENTONO

Il Signore è disposto a ricevere la nostra teshuvà e ad accogliere fra le Sue braccia coloro che si dispongono a farne una, onesta e duratura.

Il Maimonide nell’ Hilkhot ha-teshuvà si domanda se la teshuvà, può essere considerata una mitzvà she ha zeman gheramà – con un tempo stabilito, come ad esempio la recitazione dello Shem’à – che richiede l’obbligo di essere recitato la sera o la mattina.

Egli arriva a sostenere che, come ogni uomo ha l’obbligo di fare teshuvà esattamente come ha il dovere dire lo Shem’à ogni giorno della propria vita.

A questo proposito, riporta una citazione talmudica che dice:

«Shuv jom echad lifnè mitatekhà»

«Pentiti un giorno prima della tua morte».

A questo insegnamento i suoi discepoli obiettarono dicendo:

che ogni uomo debbia morire non c’è ombra di dubbio, ma che possa conoscerne il suo giorno, questo non ci è dato sapere!”.

Per questo motivo, ogni uomo ha il dovere di confessarsi con il Suo Creatore ogni giorno della propria vita, riconoscendo le proprie trasgressioni e le proprie colpe, ripromettendosi così di non ritornare sulle colpe espiate.

I Maestri sostengono che, nel momento in cui ci si rende conto della trasgressione, non si deve più ritornare su di essa, sbagliando nuovamente; coloro che invece ripetono più volte lo stesso errore sono ulteriormente colpevoli.

Il mezzo fondamentale alla teshuvà, continua il Maimonide, è il viddui. Esso è la presa di coscienza delle proprie azioni, comprendente anche il merito di aver la forza di confessare – intercedendo per essi – gli errori di altri nostri fratelli (per questo

motivo la formula del viddui è scritta in prima persona plurale).

Durante tutte le tefillot del giorno di Kippur recitiamo dieci vidduim: due per ogni tefillà; una durante l’amidà sotto voce, uno durante la ripetizione di essa ad alta voce.

Il primo viddui è la presa di coscienza fra noi e D-o, una cosa intima; l’altro è per intercessione nei confronti del nostro prossimo, nostro fratello, appartenente al nostro popolo.

Il numero dieci è in corrispondenza delle dieci Sefirot – le emanazioni divine – che in questa giornata si ricompongono e tornano a deporsi su tutto il popolo.

Il motivo della loro ricomposizione sta nel fatto che, questa giornata così sacra e così unica, vede il popolo unito e compatto, come fratelli all’interno di un’unica famiglia.

«Hinnè ma tov umà naim sveve achim gam jachad»

«Ecco come è bello e piacevole stare insieme fra fratelli!»

Il concetto di arevut – responsabilità famigliare, ci coinvolge, facendoci sentire, almeno in questo giorno, moralmente responsabili l’uno dell’altro: Israel arevim ze ba ze – ogni ebreo è garante dell’altro, questo è il nostro destino, sia nel bene che nel male. Questo comportamento ci porterà sicuramente al perdono di D-o dopo questa intensa e sacra giornata;  ci porterà alla gheullà shelemà – alla redenzione completa e alla fine di tutte le sofferenze per il nostro popolo.

Shabbat Shalom, 

Gmar chatima tovà,

Rav Alberto Sermoneta

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