«ATTA NOTEN JAD LA POSHEIM VE JAMIN PERUSA’ LE KABEL SHAVIM»
Nel Talmud di Jomà, trattato che si occupa esclusivamente del giorno del Kippur, troviamo l’espressione di sopra, attribuita a Ullà figlio di Rav, con la quale si esorta colui che trasgredisce a pentirsi ed a tornare sulla giusta via.
Si immagina che il Santo benedetto Egli sia non abbia la volontà di punire i malvagi con la morte «ki lo echfoz be mot ha rasha’» – «non gradisco la morte del malvagio», ma fare in modo che costui, riconoscendo le sue colpe ed i sui errori, si penta facendo teshuvà.
La teshuvà è quindi l’elemento fondamentale che in questi giorni viene usato per garantire il perdono divino
“TU CHE PORGI LA TUA MANO AI PECCATORI E DISTENDI LA TUA DESTRA PER ACCOGLIERE COLORO CHE SI PENTONO”
Il Signore è disposto a ricevere la nostra teshuvà e ad accogliere fra le Sue braccia coloro che si dispongono a farne una, onesta e duratura.
Il Maimonide nell’ Hilkhot ha-teshuvà si domanda se la teshuvà, può essere considerata una mitzvà she ha zeman gheramà – con un tempo stabilito, come ad esempio la recitazione dello Shem’à – che richiede l’obbligo di essere recitato la sera o la mattina.
Egli arriva a sostenere che, come ogni uomo ha l’obbligo di fare teshuvà esattamente come ha il dovere dire lo Shem’à ogni giorno della propria vita.
A questo proposito, riporta una citazione talmudica che dice:
«Shuv jom echad lifnè mitatekhà»
«Pentiti un giorno prima della tua morte».
A questo insegnamento i suoi discepoli obiettarono dicendo:
“che ogni uomo debbia morire non c’è ombra di dubbio, ma che possa conoscerne il suo giorno, questo non ci è dato sapere!”.
Per questo motivo, ogni uomo ha il dovere di confessarsi con il Suo Creatore ogni giorno della propria vita, riconoscendo le proprie trasgressioni e le proprie colpe, ripromettendosi così di non ritornare sulle colpe espiate.
I Maestri sostengono che, nel momento in cui ci si rende conto della trasgressione, non si deve più ritornare su di essa, sbagliando nuovamente; coloro che invece ripetono più volte lo stesso errore sono ulteriormente colpevoli.
Il mezzo fondamentale alla teshuvà, continua il Maimonide, è il viddui. Esso è la presa di coscienza delle proprie azioni, comprendente anche il merito di aver la forza di confessare – intercedendo per essi – gli errori di altri nostri fratelli (per questo
motivo la formula del viddui è scritta in prima persona plurale).
Durante tutte le tefillot del giorno di Kippur recitiamo dieci vidduim: due per ogni tefillà; una durante l’amidà sotto voce, uno durante la ripetizione di essa ad alta voce.
Il primo viddui è la presa di coscienza fra noi e D-o, una cosa intima; l’altro è per intercessione nei confronti del nostro prossimo, nostro fratello, appartenente al nostro popolo.
Il numero dieci è in corrispondenza delle dieci Sefirot – le emanazioni divine – che in questa giornata si ricompongono e tornano a deporsi su tutto il popolo.
Il motivo della loro ricomposizione sta nel fatto che, questa giornata così sacra e così unica, vede il popolo unito e compatto, come fratelli all’interno di un’unica famiglia.
«Hinnè ma tov umà naim sveve achim gam jachad»
«Ecco come è bello e piacevole stare insieme fra fratelli!»
Il concetto di arevut – responsabilità famigliare, ci coinvolge, facendoci sentire, almeno in questo giorno, moralmente responsabili l’uno dell’altro: Israel arevim ze ba ze – ogni ebreo è garante dell’altro, questo è il nostro destino, sia nel bene che nel male. Questo comportamento ci porterà sicuramente al perdono di D-o dopo questa intensa e sacra giornata; ci porterà alla gheullà shelemà – alla redenzione completa e alla fine di tutte le sofferenze per il nostro popolo.
Shabbat Shalom,
Gmar chatima tovà,
Rav Alberto Sermoneta
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