Parashat Toledot

Parashat Toledot

Parashat toledot

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

La parashà di Toledot, dedica un largo spazio a Isacco, figlio di Abramo e secondo dei tre Patriarchi.

Già nella parashà della settimana scorsa, la Torà ci ha presentato un Isacco completamente diverso da suo padre, sia nel modo di comportarsi nei confronti della sua famiglia, sia nei confronti della società.

Isacco ha un carattere totalmente introverso e remissivo, gli viene presentata una donna che lui sposa, con la quale metterà al mondo due gemelli: Giacobbe ed Esaù, i quali, come sua moglie Rebecca, non avranno una grande considerazione di lui.

Isacco verrà ingannato per la sua vecchiaia e per la sua cecità, sia da Rebecca che da Giacobbe stesso, che attraverso il travestimento da Esaù, dietro consiglio della madre, prenderà al suo posto la benedizione per la primogenitura.

Isacco è un personaggio mite, ma che vive una vita superficiale, dedicandosi  poco alle virtù che erano caratteristica di Abramo.

Leggendo la sua vita, nelle due parashot – Chajè Sarà e Toledot – si può conoscere un personaggio passivo davanti a tutto e che ripete gli errori di suo padre, senza però dare troppe spiegazioni; si può dire che egli vive un po’ all’ombra di Abramo.

Se i tre Patriarchi hanno istituito, secondo il midrash, le tre tefillot giornaliere: Abramo – Shachrit, Giacobbe – Arvit, Isacco istituisce la tefillà di Minchà, che è considerata fra le tre, quella di ripiego.

Ha un tempo molto breve per essere recitata, è un po’ la tefillà che si trova fra le due grandi colonne della liturgia e soprattutto fra i due momenti fondamentali della giornata, mattina e sera.

Minchà però, secondo i nostri Maestri è forse la tefillà più importante fra le tre, perché, per prima cosa avendo il tempo di recitazione più ristretto, obbliga una maggior attenzione nel recitarla.

Minchà è quella tefillà che segna il passaggio dalla forza della giornata solare, alla fiacca dovuta alla fatica di una giornata trascorsa nel lavoro, nello studio e nella dedizione alla famiglia.

Secondo una interpretazione cabalistica, la tefillà di minchà, ci fa raggiungere il livello più alto di spiritualità, rispetto al resto della giornata e delle altre due preghiere.

Proprio come il Patriarca Isacco, che essendo l’oggetto dell’Akedà (il Sacrificio non sacrificio) e quindi l’essere posto sul mizbeach – l’altare dei Sacrifici, considerato Kodesh ha kodashim (Santo dei Santi), aveva raggiunto un livello di spiritualità, talmente alto, che tutto ciò che era umano e materiale, veniva da lui considerato di scarso interesse.

E’ forse questo uno dei motivi del suo disinteressamento per tutto ciò che gli girava attorno.

Shabbat shalom,

 

Rav Alberto Sermoneta 

Parashat Chayè Sarà

Parashat Chayè Sarà

Parashat Chayè Sarà

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

“Gam téven gam mispò rav ‘immànu gam maqòm lalùn – Sia foraggio che strame abbiamo in abbondanza e anche posto per dormire” (Bereshit 25;24)

Quando Eli’ezer servo fidato di Abramo, viene mandato da lui in Mesopotamia per trovare una moglie per Isacco, dopo una accorta preghiera propiziatoria, pone delle condizioni affinché potesse capire quale fosse la ragazza giusta.

Incontra la ragazza predestinata ad andare in moglie ad Isacco, le chiede un po’ di acqua da bere e lei risponde con le suddette parole che denotano una non consueta grande ospitalità.

Nella parashà della scorsa settimana, abbiamo conosciuto un Abramo che, nonostante la sofferenza fisica causata dalla milà offre ai tre angeli divini ospitalità e rifocillamento; così come lui anche la sua famiglia in Mesopotamia non è da meno.

La hakhnasat orechim – ospitalità ai viandanti è considerata una delle più importanti mitzwot che la Torà comandi e che ci vengono trasmesse proprio da coloro che furono i pilastri della tradizione ebraica.

Rebecca, considerata tzaddeqet bat rasha’  ossia una giusta figlia di un malvagio, grazie all’osservanza di questa grande mitzwà, meriterà in seguito di divenire la madre di colui che avrà come nome quello che è il nome del nostro popolo: Israel.

Il  grande merito di costei è proprio quello di essere una persona che sa accogliere i viandanti, facendoli considerare come fossero a casa loro.

Shabbat shalom,

 

Rav Alberto Sermoneta 

Parashat Vaierà

Parashat Vaerà

parashat vaierà

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

Nella parashà, la Torà ci mostra la grandezza di Avraham il quale, dopo aver conosciuto l’intenzione divina di distruggere le città di Sodoma e Gomorra, inizia una lunga trattativa con il Signore per salvare le due città, o almeno una buona parte dei suoi abitanti.
Egli inizia con il far notare a D-o che se in essa vi fossero cinquanta giusti, si sarebbe potuto salvare le due città in grazia di quei giusti.

D-o accetta la richiesta di Abramo, ma Abramo, di volta in volta diminuisce il numero delle persone giuste. Si ferma a dieci, e D-o gli risponde dicendo che anche se soltanto dieci giusti, vivono nelle due città, Egli le risparmierà in grazia dei dieci.
Purtroppo non se ne trova nemmeno  uno e le due città vengono distrutte.
I maestri si chiedono il motivo perché Abramo si ferma a dieci e non scende oltre.

Una delle spiegazioni è che, quando Noè costruì l’arca, si salvarono dal diluvio otto persone: Noè con sua moglie e i suoi tre figli con le loro mogli; quindi il pensiero di Abramo era quello di mostrare il suo rigore, nel cercare due persone in più, rispetto al diluvio.

Un’altra interpretazione è quella che vuole mostrare che il numero dieci è il numero minimo per dare pubblicità ad una cosa: una manifestazione diviene di pubblico dominio se è presente un quorum.

Nella tradizione ebraica, una qualsiasi manifestazione pubblica nell’ambito della vita sociale, deve avvenire alla presenza di un quorum:  quello che noi ebrei chiamiamo “minian-numero”.
Un matrimonio, un divorzio, un atto giuridico, una tefillà deve avvenire con la presenza di almeno dieci uomini adulti – ossia che abbiano compiuto i tredici anni di vita.

Nel trattato talmudico di Berakhot (Berakhot 6), troviamo detto dai nostri maestri:
“Quando ci sono dieci uomini che sono riuniti nella tefillà, la presenza divina è in mezzo a loro” secondo ciò che è scritto: “D-o sta nella congregazione divina (El-Israel)”.
La tefillà, con la presenza del minian,  assume un valore particolarmente sacro.
Viceversa, in mancanza di esso,  non solo ha minor valore ma determina l’omissione delle sue parti più importanti.

La presenza del minian,  permette la recitazione del kaddish e della kedushà che sono la santificazione divina e quindi le parti fondamentali della tefillà. Inoltre si omette la ripetizione della amidà che è definita dai maestri della Mishnà, la parte essenziale e, insieme ad essa viene anche omessa la birkat kohanim – la benedizione sacerdotale che è parte integrante della amidà.
Inoltre senza il minian non è permesso estrarre e leggere pubblicamente la Torà, momento particolarmente sacro per noi ebrei, tanto che la halakhà ci impone di leggerla tre volte alla settimana (lunedì, giovedì e shabbat), non recitare lo Shemà nella versione integrale (A’ Elokekhem emet) e le benedizioni pubbliche della haftarà  (brano profetico in relazione alla parashà).
Tutto questo avviene anche se manca una sola persona al quorum di dieci e fa sì che, con la sua mancanza la tefillà rimanga menomata, perdendo quindi ogni suo scopo.

Una delle cose fondamentali della tefillà è il kaddish che viene recitato in memoria di una persona defunta; è per questo che nella tradizione ebraica, quando ricorre l’anniversario di un nostro caro, in tempio si recita la hashkavà (una preghiera particolare di suffragio in memoria del morto) e i figli, o i parenti più prossimi recitano il kaddish che è la santificazione divina e l’atto massimo di rassegnazione alla Sua volontà, soprattutto nei momenti in cui ci viene a mancare un nostro caro.

Sostengono i rabbanim che la recitazione del kaddish, da parte di un figlio o un consanguineo, per un genitore o un parente prossimo, contribuisce ad intercedere presso D-o, per liberare l’anima del defunto dalle pene inflitte nell’Olam ha ba e fa sì che essa, salga sempre di più verso l’alto, verso la pace ed il riposo eterno.

E’ per questo motivo che noi, ogni volta che ricorre l’anniversario di un nostro caro, abbiamo il dovere di organizzare un minian e recitare in suo onore il kaddish.
Nella tradizione rabbinica è detto che la responsabilità di ogni ebreo, riguarda tutto il popolo: “Israel ‘arevim ze ba ze – ogni ebreo è garante dell’altro”. Per cui ognuno di noi ebrei è “il minian”; ossia, ha la responsabilità della presenza del minian e della completezza della tefillà.

Abramo, nel caso di Sodoma e Gomorra si sentiva responsabile e parte in causa della loro sorte: salvezza o distruzione ed ha contrattato con D-o, con tutte le sue possibilità per far salvare le due città. Essi però risultarono dei malvagi, mentre un ebreo non può essere considerato tale: “ve ammekh kullam zaddiqim – mentre il tuo popolo è costituito da soli giusti” (Mishnà trattato di Sanhedrin).
Perciò, noi ebrei abbiamo, soprattutto fra di noi, il dovere di fare il massimo per il bene nostro e quello dei nostri fratelli; un dovere fisico e morale che nessuno può cambiare.

Shabbat shalom,

 

Rav Alberto Sermoneta 

Parashat Lech Lechà

Parashat Lech Lechà

parashat lech lechà

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

Un insegnamento del Rabbino Ben Ish Chaii (Yosef Chaiim di Bagdad 1835 -1909)
 
Nella sua opera di commento alla Torà, ci fa notare una sottile differenza, fra una espressione talmudica e una dello Zohar. Nel Talmud, quando si vuole commentare o spiegare una halakhà, troviamo l’espressione in aramaico “ta shemà – vieni e ascolta”; nello Zohar invece per la stessa motivazione, viene detto “ta chazé – vieni e guarda”.
 
Egli insegna che i chakhamim del Talmud in Babilonia, non scrivevano le proprie discussioni e le conseguenti halakhot (questo è uno dei motivi per cui è conosciuto come Torà orale), le discutevano oralmente; mentre lo Zohar, secondo la tradizione rabbinica fu scritto interamente. Per questo motivo per l’uno si adopera il verbo ascoltare, per l’altro il verbo vedere, perché è possibile leggere l’interpretazione scritta.
 
Nella parashà di Lekh lekhà, la Torà ci presenta colui che sarà il cardine dell’ebraismo; colui che, pur vivendo in mezzo ad una società pagana, una famiglia di pagani, ebbe la sensazione che il mondo e tutto l’universo fossero creati da un unico essere superiore: Avraham.
 
L’ordine che egli riceve dal Signore, suona con le parole:
“Lekh lekhà me artzekhà u mi moladtekhà u mi bet avikha El ha aretz Asher arekka – Vattene per te (per il tuo bene) dalla tua nazione, dal paese dove sei nato, dalla casa di tuo padre verso la Terra che ti indicherò” (ti mostrerò), ossia la futura Eretz Israel. Ad Abramo viene impartito un duplice comandamento, ossia: abbandonare il passato per andare verso una vita futura.
 

Se per le tre espressioni che richiamano il suo passato, viene usata una espressione vocale “Lekh lekhà….” per la parte del futuro l’espressione “arekka – ti farò vedere” garantisce la visibilità.
Il Rabbino Ben Ish Chaii, nel commentare l’espressione talmudica “ta shemà – vieni e ascolta” sottolinea che i chakhamim del Talmud, vivono e si esprimono dalla diaspora che denota mancanza di sicurezza ma soprattutto di garanzia visibile. Viceversa, i chakhamim dello Zohar che sono vissuti in Israele, hanno goduto di tutte le garanzie di cui ha bisogno un ebreo, fra cui la visione della realtà.
Abramo lascia la diaspora dove non c’è sicurezza per un ebreo e si dispone ad entrare nella Terra di Israele dove avrà la garanzia di un futuro per lui e per tutta la sua discendenza.

In un momento così buio per il nostro popolo, una garanzia che proviene direttamente dal Signore D-o non può che darci almeno un barlume di speranza. Nella nostra parashà troviamo un brano che va sotto il nome di “berit ben ha betarim – patto fra le divisioni” in cui D-o garantisce ad Abramo che darà ai suoi discendenti la terra di Israele come retaggio eterno.

I Patti stipulati dal Signore D-o, non sono come quelli degli uomini, ma si mantengono nell’eternità.

Shabbat shalom,

 

Rav Alberto Sermoneta 

Parashat Noach

Parashat Noach

parashat Noach

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

La parte fondamentale della parashà tratta degli eventi riguardanti il Diluvio Universale.

Appena uscito dall’arca, il Signore stipula con Noè un patto eterno, cioè quello di non distruggere mai più il mondo che aveva creato, a causa delle malefatte dell’uomo.

Nel libro di Bereshit, leggeremo più volte di patti stipulati fra D-o e coloro che saranno i grandi uomini della storia dell’epoca.

Ognuno di questi patti è suggellato da un segno che ha a che fare con il tipo di patto stabilito fra D-o e l’uomo; nel caso in questione il simbolo è l’arcobaleno.

Nel momento in cui Noè si accinge ad accettare il patto con D-o, alzando gli occhi al cielo, vede l’arco “keshet” che simboleggia la rappacificazione fra D-o e l’uomo.

Perché proprio l’arcobaleno?

Era un’usanza dei popoli antichi fronteggiarsi in guerra e quando decidevano di rappacificarsi, giravano verso se stessi le armi, come segno di volontà non bellicosa.

Il diluvio può essere considerato in un certo senso, una guerra di D-o contro l’umanità che si comporta in modo maligno nei Suoi confronti, che consiste nel diluvio che spazza la malvagità dalla terra.

Dopo aver fatto giustizia D-o riappacificandosi con l’Umanità, dà loro un segno di non belligeranza

che in questo caso  è simboleggiato proprio dalla Sua arma di quel momento che è la pioggia e che può essere rappresentata dall’arcobaleno rivolto verso Se stesso.

“…Lo osif ‘od le kallel et ha adamà ba ‘avur ha adam – Non distruggerò più la terra a causa dell’uomo” è questo una solenne promessa di D-o che ha lo scopo di rassicurarci sulla sorte del nostro pianeta, che non verrà più distrutto da D-o come avvenne al tempo di Noè, sta ora a noi esseri umani a sapercelo tener da conto……

Shabbat shalom,

 

Rav Alberto Sermoneta 

Parashat Bereshit

Parashat Bereshit

parashat Bereshit

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

«Koach ma’asaw higghid le ‘ammò latet lahem nachalat goiim»
 

«La potenza delle Sue opere ha narrato al Suo popolo per dare loro il possedimento dei popoli» (Tehillim 111).

Rashì, nel commentare il motivo dell’inizio della Torà con il racconto della Genesi, riporta questo versetto del libro dei Tehillim in cui si esalta l’uomo timoroso di D-o, che ha fiducia in Lui, qualsiasi sia la sorte che gli si presenti. Egli sostiene che fa parte del timor di D-o anche quello di accettare la spartizione del mondo e dei suoi territori.

Riportando una spiegazione del midrash, (Bereshit rabbà), attribuita a Rabbì Izchak, spiega che il motivo per cui la Torà inizia dal racconto della Genesi, è per far conoscere a chi potrebbe accusare Israele di essersi impossessato della terra che prima apparteneva ai sette popoli, che D-o è il suo creatore e che è Lui a destinare la Terra a coloro che saranno  più meritevoli. Per questo, nel versetto dei salmi sopra citato si inneggia ai timorosi di D-o e al loro premio.

In un midrash si racconta che, al momento della Creazione tutte le lettere si disposero davanti all’Eterno per mostrarsi e far sì che Egli potesse scegliere una di loro per usarla come iniziale del testo; 

L’Eterno scelse però la lettera bet che è la seconda dell’alfabeto.

Al che, la alef si presentò al cospetto di D-o e manifestò le sue lamentele, dicendo che, essendo lei la prima dell’alfabeto, la Torà sarebbe dovuta iniziare con lei.

L’Eterno obiettò alla lamentela della alef, rispondendo che essa è anche l’iniziale della parola “arur” che significa maledetto, mentre non poteva essere iniziata l’opera creativa che all’insegna della benedizione – berachà, quindi con la bet. Assicurò a lei però, che avrebbe scritto qualcosa di assai importante con la alef: i Dieci Comandamenti – e chi non li avesse osservati, avrebbe provocato anche la distruzione del Mondo.

Shabbat Shalom e Chodesh Tov,

 

Rav Alberto Sermoneta 

Parashat Vezot Ha Berachà

Parashat Vezot Ha berachà

parashat Vezot ha berachà

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

“…E questa è la benedizione con cui Mosè benedisse il popolo di Israel prima di morire…”

E’ considerato uno dei brani più commoventi della Torà; Mosè dopo aver faticato per trarre il popolo dalla schiavitù egizia, dopo aver discusso con lui e dopo aver discusso quaranta giorni e quaranta notti, con D-o per farlo perdonare dalla grave colpa del “vitello d’oro”, dopo aver ricevuto la Torà e insegnata al popolo per quarant’anni di permanenza nel Deserto, era ad un passo dalla morte.

L’uomo che “vide D-o faccia a faccia” era pur sempre un uomo e per lui era arrivato il suo giorno fatidico.

Racconta un midrash, che il Malakh ha mavet – l’Angelo della morte si presentò a Mosè, comandandogli di andare con lui, perché era giunta la sua ora; a questo comando Mosè gli chiese chi fosse e costui rispose che era l’Angelo della morte e che avrebbe dovuto seguirlo.

A questo Mosè rispose che egli era Mosè, che aveva parlato con D-o “faccia a faccia” e che non lo avrebbe seguito affatto.

L’Angelo tornò dall’Eterno a riferire la reazione di Mosè e D-o lo supplicò di ritornare da lui, ripetendogli lo stesso imperativo, ma inutilmente perché anche per la seconda volta Mosè si rifiuto di seguirlo.

L’Angelo tornò per la seconda volta dal Signore, a riferire del comportamento del Maestro; e così ancora per altre volte, finchè il Signore disse che sarebbe stato Lui in Persona a recarsi dal Mosè, il quale davanti a D-o non poté sottrarsi dal suo destino.

E’ per questo che nel testo troviamo scritto: “va jamot Moshè ‘al pi A’ – e Mosè morì per bocca del Signore”.

 

Shabbat Shalom

Rav Alberto Sermoneta 

Sukkot e i sette Ushpizin

Sheva Ushpizin

Sukkot e i sette ushpizin

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

Durante i sette giorni della festa di Succot ogni ebreo ha il dovere di trascorrere la maggior parte del suo tempo all’interno della succà.

Molti trasferiscono le loro abitudini casalinghe dentro la succà e oltre mangiare e bere, la usano anche dormire. La halakhà prevede che in essa si consumino almeno i pasti principali.

I Maestri della kabalà, ci dicono che durante quei giorni nella nostra vita casalinga sotto la succà, abbiamo il merito di ricevere sette ospiti d’onore chiamati Shivat ushpizin – sette ospiti.
Costoro sono i pilastri della nostra tradizione e sono: Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Mosè, Aharon e David. Ogni giorno, uno di essi è presente con noi per l’intera giornata fino al giorno di Hoshaanà rabbà, giorno in cui il Signore giudica definitivamente il nostro operato.

Qual è il motivo della visita di questi illustri ospiti?

La festa di Succot, cade esattamente a cinque giorni dopo Kippur (giorno in cui abbiamo espiato le colpe verso D-o, ma soprattutto abbiamo promesso di migliorare il nostro comportamento) e a sei giorni da Hoshaanà Rabbà (giorno in cui con affanno attendiamo il sigillo al nostro verdetto, sperando che sia benevolo).

Durante Succot ci rallegriamo per un annata piena di soddisfazioni materiali, è la festa del raccolto, quindi una forma di premio per ciò che di buono e di bene abbiamo fatto verso il nostro prossimo.

Questo benessere tuttavia non deve allontanarci mai dal riflettere su ciò che facciamo.
La presenza dei nostri ospiti deve mantenere sempre vivo il loro insegnamento; essi sono il ponte che ci lega alla Torà e al Signore che ci ha permesso di gioire del benessere che abbiamo ricevuto.

Quindi la succà e i suoi ospiti non sono altro che il simbolo della nostra precarietà e dell’esempio a cui dobbiamo attingere per iniziare un nuovo anno, all’insegna del rispetto per il nostro prossimo e del ringraziamento a D-o per il bene che ci concede.

Shabbat shalom e chag sameach

 

Rav Alberto Sermoneta 

Kippur e l’espiazione

Yom Kippur

kippur e l'espiazione

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

Il giorno di Kippur è considerato nella vita di ogni ebreo, il giorno più sacro dell’anno. È, secondo l’insegnamento della Torà, il giorno in cui ogni ebreo espia il proprio comportamento negativo, nei confronti del prossimo e di Dio, con un digiuno completo di circa venticinque ore.
 
L’espiazione viene accompagnata oltre che dal digiuno anche dalla preghiera e dal serio pentimento, che consiste nel promettere di non ripetere più il comportamento sbagliato avuto in passato.
 
La parte fondamentale delle preghiere dello Yom Kippur è il Viddui, la confessione delle colpe che, secondo la tradizione ebraica viene fatta pubblicamente ed espressa in prima persona plurale.
 
Ciò significa che, ogni uomo, nell’esprimere una seria confessione al Signore, si preoccupa di intercedere anche per il prossimo in quanto, la vita dell’ebreo è sempre in correlazione con il suo prossimo ed ognuno è responsabile e garante nei suoi confronti.
 
Le lunghe ed austere preghiere della giornata si concludono al tramonto del sole, col il suono dello shofar, che comunica al popolo che il suo pentimento e le sue preghiere sono state esaudite da Dio.

Tutto ciò segna anche l’auspicio di inizio del nuovo anno con benedizione e gioia.

 

Rav Alberto Sermoneta 

Parashat Haazinu

Parashat Haazinu

parashat haazinu

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

Questa parashà può essere considerata l’ultimo discorso che Mosè rivolge al popolo prima di accommiatarsi definitivamente da esso.

E’ chiamata shirà – cantica, in quanto, oltre ad essere scritta in forma poetica, è scritta graficamente in modo assai diverso da tutto il testo della Torà, a differenza di un altro brano di Torà, chiamato “shirat ha yam – cantica del mare” che è quel brano che intonarono Mosè e tutto il popolo, dopo aver attraversato il Mar Rosso.

La shirà di Haazinu è di altro argomento rispetto alla shirat ha jam, in quanto nel brano in questione, troviamo un forte rimprovero che Mosè rivolge al popolo prima di morire.

E’ considerato una profezia per il futuro del popolo, in quanto Mosè è sicuro che subito dopo la sua morte, il popolo non impiegherà molto tempo ad allontanarsi dalla strada che egli gli ha insegnato e ciò porterà alla sua rovina.

Al termine della parte in forma poetica, la Torà ci narra il brano commovente nel quale viene comandato a Mosè di salire sul Monte Nebo e da lì potrà vedere, con una visione profetica, tutta la Terra nei suoi confini ideali, dopodiché morirà lì, come avvenne per suo fratello Aharon e sua sorella Miriam, senza che anche essi entrassero in Israele.

I decreti divini sono irremovibili, anche per i grandi uomini, come Mosè.

Shabbat Shalom

 

Rav Alberto Sermoneta