“Appena ieri” di Shmuel Yosef Agnon

Agnon

- Appena ieri di Shmuel Yosef Agnon -

Martedì 5 marzo alle ore 18:00 in Sala ADEI, (1° piano di Cannaregio 1189) – Ciclo di incontri sulla letteratura israeliana a cura di Giovanni Levi e Ambra Dina.

Dott. Davide Cutrì – Appena ieri di Shmuel Yosef Agnon (1880-1970)

“Ahavat Zion” di Avraham Mapu

Ahavat Sion

- Ahavat Zion di Avraham Mapu -

Domenica 3 marzo alle 17:30 in Sala ADEI, (1° piano di Cannaregio 1189) – Ciclo di dibattiti sull’ebraismo a cura di Giovanni Levi e Ambra Dina, con l’adesione dell’Adei-WIZO di Venezia

Prof. Luisa Basevi – Ahavat Zion di Avraham Mapu (1808-1867), il primo romanzo scritto in ebraico: sfide linguistiche e culturali.

Parashat Itrò

Parashat Itrò

- Parashat Itrò -

Venezia Ebraica - Jewish Venice
- A cura di Rav Alberto Sermoneta -

Con il racconto della Promulgazione del Decalogo, contenuto in questa parashà, i figli di Israele si accingono definitivamente a stipulare un patto, un’alleanza fra loro e D-o e a diventare popolo.
Tale intimo accordo li porterà ad essere considerati dal Signore stesso mamlechet kohanim ve goi qadosh, “reame di sacerdoti e popolo santo” a condizione che esso sia sempre rispettato.

Nel corso dei secoli questo connubio è costato caro al popolo ebraico, all’insegna delle persecuzioni, da parte di tanti altri popoli, contemporanei e posteriori alla sua nascita, che hanno usato il termine “popolo eletto” per denigrare sempre di più il nostro operato e per apportare stragi e dolori.

La Torà non è la Legge, come definita erroneamente, ma il libro dell’insegnamento delle esperienze umane, che fonda i suoi principi sulla libertà e sull’uguaglianza di ogni essere umano, riluttando ogni forma di sottomissione fra simili e ogni forma di schiavitù e servilismo.

La prima parte della parashàt Itrò, da cui la stessa prende il nome, è dedicata, cosa assai rara per la Torà, ad un goi, anzi ad un pagano – Itrò, il quale dopo essersi acculturato sulla verità e l’esistenza delle varie divinità, accetta, secondo l’interpretazione del midrash, le tradizioni del neo popolo ebraico, in quanto rappresentante della volontà dell’unico D-o.

La qabbalat ha Torà, che farà il popolo di Israele alle pendici del Monte Sinai, deve essere l’insegnamento a tutti i popoli della volontà di servire il Signore, attraverso soprattutto il rispetto del prossimo e per tutto ciò che vive intorno all’uomo, così facendo si da una prova di amore verso D-o e ciò che Egli ha creato.

La parashà termina con l’assicurazione divina al popolo, che gli garantisce una eterna assistenza e protezione, in cambio soltanto di una cosa: quella di ricordarsi di Lui in ogni momento della nostra vita: «bekhol ha maqom asher azkir et shemì avò elekha u verakhtikha» – «in ogni luogo in cui permetterò di ricordare il mio Nome, verrò de te e ti benedirò». Ovvero, sappi che nel momento in cui pronuncerai il mio Nome (ti rivolgerai a Me in preghiera per chiedermi tutto ciò di cui hai bisogno, in un luogo idoneo) ti proteggerò ed esaudirò le tue richieste, a condizione però, che anche tu ti ricordi di me in ogni momento, osservando i precetti e rendendoti disponibile di aiutare coloro che hanno bisogno.

 

Shabbat shalom,

 

Rav Alberto Sermoneta 

Parashat Bo

Parashat Bo Jewish Venice

Parashat bo

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

Nella parashà che leggeremo questo shabbat, prima che il popolo esca dall’Egitto e si accinga ad assaporare il piacere della libertà, come popolo, la Torà comanda loro alcune fra le mitzwot più importanti che ci accompagnano ancora oggi, a distanza di circa tremila anni: la scansione del Tempo, il Qorban Pesach con la celebrazione di quella festa e il dovere di indossare i Tefillin.

Tutte e tre queste mitzwot hanno il fine di insegnare il fondamento della nostra tradizione ai propri figli.

Per quanto riguarda la scansione del tempo, ogni padre ha il dovere di insegnare ai propri figli come gestire il proprio tempo, sapendo trarre da ciò,  il beneficio di goderne positivamente, conoscendo quando è il momento di lavorare e quando quello in cui ci si deve fermare  “santificandolo” attraverso l’osservanza delle festività.

La festa di Pesach è considerata il momento culminante per l’educazione;  il figlio, protagonista principale della cena del seder, rivolge le domande di rito, al fine di conoscere i criteri fondamentali di questo grande evento. Il padre ha il dovere assoluto, di far in modo che attraverso la narrazione dell’evento, egli si senta coinvolto in prima persona.

Nella mitzwà dei Tefillin è raccolto tutto lo scibile ebraico, ma soprattutto il dovere di ogni padre, maestro o educatore ad insegnare a suo figlio, alunno o discepolo, le parole della Torà e le sue mitzwot.

Dunque se non c’è studio, non c’è cultura e  non c’è osservanza delle mitzwot; ma se non c’è l’osservanza delle mitzwot, non può esserci LIBERTA’.


Shabbat shalom,

 

Rav Alberto Sermoneta 

La ministra di Stato per la Cultura e i Media tedesca in visita al Ghetto

ministra cultura germania al ghetto

La ministra di Stato per la Cultura e i Media tedesca in visita al Ghetto ebraico

La ministra di Stato per la Cultura e i Media tedesca Claudia Roth ha compiuto oggi una visita istituzionale nell’area del vecchio Ghetto di Venezia, varcando la soglia di alcune sinagoghe e sostando davanti ad alcune pietre d’inciampo. 

Le hanno dato il benvenuto il presidente della locale Comunità ebraica Dario Calimani, il rabbino capo Alberto Sermoneta, il vicepresidente della Comunità Paolo Navarro Dina e altri esponenti del Consiglio. 

Nell’occasione Roth ha deposto una corona in memoria delle vittime del regime nazista al Monumento all’Olocausto di Arbit Blatas in Campo del Ghetto Nuovo.

Parashat Vaerà

Parashat Vaerà

Parashat Vaerà

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

Nella parashà di questa settimana leggeremo le prime sette piaghe che il Signore mandò contro l’Egitto, per convincere il Faraone a liberare il popolo ebraico dalla schiavitù.

C’è da notare una cosa interessante a proposito della prima piaga:

Mosè ed Aronne, si presentano al Faraone per annunciargli che se non avesse liberato il popolo ebraico, il Signore avrebbe tramutato in sangue, il fiume Nilo e tutte le altre sorgenti d’acqua.

La cosa curiosa è che D-o dice a Mosè e ad Aronne di recarsi sul far del mattino dal Faraone, perché sta uscendo dall’acqua, mentre il lettore è abituato ad immaginarsi che i due si fossero presentati al Faraone, nella sala del trono, ad una certa ora del giorno e, magari, al cospetto dei suoi sudditi.

I commentatori si chiedono il motivo di questa visita, di buon mattino, sulle rive del Nilo, quando il Faraone stava uscendo dall’acqua.

A ciò si fa notare che, sia il Nilo, sia il Faraone erano considerati dagli egiziani delle divinità e, come tutte le divinità che si rispettino, non dovevano mai trovarsi, o farsi vedere in atteggiamenti poco ufficiali.

Che cosa faceva il Faraone di buon mattino nel fiume?

Pensandoci bene, il Faraone era un uomo potente e importante, ma pur sempre un uomo, con tutti i suoi bisogni fisici e fisiologici che hanno tutti gli esseri viventi; gli esseri viventi, quelli “comuni” hanno necessità di fare i propri bisogni fisiologici quando si alzano dal letto, prima di andare in ufficio, ma il Faraone era una divinità e per questo non poteva far sapere alla gente “comune” che anche  lui aveva le stesse necessità di ogni altro essere vivente mortale.

E’ per questo motivo che il Signore chiede a Mosè e ad Aronne di parlare con lui in un momento per lui particolarmente delicato, facendogli notare, nonostante la sua auto considerazione di divinità che con il Signore, D-o onnipotente, nessuno può competere.

Il Faraone è completamente nudo, ha compiuto i suoi bisogni corporali, non può usare nessun atto di stregoneria o di regalità contro i due, è per ciò che non risponde alla minaccia, ma è costretto a tacere, incassando così la prima sconfitta.

Shabbat shalom,

 

Rav Alberto Sermoneta 

Parashat Vayigash

Parashat Vayigash

Parashat Vayeshev

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

E si avvicinò a lui Giuda dicendogli: “il tuo servo dirà una cosa alle orecchie del mio signore e non si adiri contro il suo servo, poiché tu sei come il faraone”

E’ l’inizio della parashà; già come inizio, denota, nel lungo discorso che Giuda fa a Giuseppe, ancora sconosciuto ai fratelli, una serie di doppi sensi.

C’è da sottolineare che quando una persona parla con un’altra, soprattutto se quest’ultima è più importante di lui, non gli si rivolge dicendo “dirò una cosa alle tue orecchie”.

Parlare all’orecchio di qualcuno è un’espressione che sottolinea di far in modo che ciò che sta per essere detto, deve essere ascoltata e compresa, quasi a forza.

Un suddito, non si rivolge mai al re o al ministro dicendogli: “ascolta per bene ciò che sto per dire”;

questo però è il comportamento di Giuda con Giuseppe.

La parashà di mikkez, che abbiamo letto la scorsa settimana, termina con la calunnia di Giuseppe a Beniamino, per avergli rubato il calice dove egli beveva e faceva atti di stregoneria. Dopo la richiesta di scuse da parte degli altri fratelli e la richiesta di costoro di rimanere tutti insieme in Egitto come schiavi, Giuseppe insiste chiedendo come ostaggio solo Beniamino.

Poi, l’espressione “non si adiri il mio signore” non è consona nella bocca di chi si trova in inferiorità, davanti ad una persona importante; non sembra quasi una presa in giro?

Infine “poiché tu sei come  il faraone”, come il faraone, ma non sei il faraone, oppure: sei diventato una persona perfida come sarà il faraone con gli ebrei.

Tutto ciò, inteso in questo senso, denota che quasi sicuramente Giuda ormai aveva scoperto la vera identità dell’uomo che aveva davanti: era il suo sangue;  per quanto fossero lontani da venti anni, non si dimenticano le sembianze di un fratello.

Dopo questo attacco che ha del disperato, proprio come avviene quando qualcuno non ha più  la forza né la volontà di continuare, Giuseppe capisce che è ora di smetterla e svela quindi la propria identità ai fratelli. Non c’è dubbio che l’incontro è commovente, un incontro dopo venti anni, dopo soprattutto il modo con cui i fratelli si erano comportati con lui.

Se commovente è l’incontro con i fratelli, tanto più e quello con Giacobbe, che per venti anni lo aveva creduto morto ed era sceso nella disperazione più profonda.

“Amuta ha paam – questa volta posso morire” esclama Giacobbe nel momento in cui riabbraccia Giuseppe, come a dire che per venti lunghi anni, aveva atteso il suo ritorno, o almeno una notizia su di lui.

Se si conclude bene questa avventura, se ne apre purtroppo un’altra, assai più penosa che durerà per quattrocento anni; Giacobbe con la sua famiglia scendono in Egitto, con un numero di settanta persone, ma lì resteranno fino a diventare un popolo, schiavo, senza godere di alcun diritto, se non quello della schiavitù egizia.

Moriranno per vecchiaia Giacobbe, Giuseppe e tutti gli altri della sua famiglia, ma prima di morire, in un momento di profezia, Giuseppe dirà ai suoi discendenti che il Signore li farà uscire liberi verso la Terra promessa ai Patriarchi.

Shabbat shalom,

 

Rav Alberto Sermoneta 

Chanukkà 5784

Chanukkà

Chanukkà 5784

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

“Masarta ghibborim bejad chalashim ve rabbim bejad me’atim – hai consegnato i prodi nelle mani dei deboli, i numerosi nelle mani dei pochi”

La festa di chanukkà è conosciuta con l’appellativo di “festa del miracolo” ossia il momento in cui una situazione che era ormai destinata a seguire una certa strada, improvvisamente ha cambiato rotta verso la speranza di rivedere una luce in un momento di complete tenebre.

Chag ha orim così come viene definita la festa di chanuccà, simboleggia la rinascita di una società verso un mondo migliore, all’insegna della libertà e del rispetto dell’uomo verso il suo prossimo.

Il buio è simbolo di caos, disordine e perdita della indipendenza; le tenebre sono all’insegna del primo giorno della Creazione del mondo dove nessuno poteva trovare la sua dimensione, in mezzo al marasma.

La luce segna la volontà di rimettere al proprio posto i concetti e le basi della vita sociale, ma soprattutto riapre la speranza di migliorare la propria collocazione in mezzo alla società, riaffermando la propria identità.

La parola Chanukkà deriva dal verbo “le chanech – insegnare” per mantenere le proprie usanze nel corso dei secoli è fondamentale trasmetterle alle generazioni successive per garantire la certezza di un prolungamento della propria tradizione.

In un momento così buio della storia del nostro popolo, la luce e il miracolo di chanuccà, possa ripetersi e potare una ventata di rinnovamento sulla Terra di Israele e su tutti noi, nel segno della Torà e degli insegnamenti dei nostri maestri per una vita migliore e più luminosa.

Amen
Chag chanukkà sameach,

 

Rav Alberto Sermoneta 

Parashat Vayeshev

Parashat Vayeshev

Parashat Vayeshev

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

“Va jachalom Josef chalom…. E Giuseppe fece un sogno” (Bereshit 37;9)

Senza ombra di dubbio questa è la parashà che contiene il più alto numero di sogni. Anche se molti tra i maestri di Israele, ribadiscono ciò che è scritto nel Tanakh: ” il sogno contiene cose vane – va chalomot shaw jedabbéru” (Zaccaria 10;2) questo non per tutti è valido.

Per Josef sono stati la premonizione del suo futuro e attraverso la sua fortunata interpretazione, egli trova l’opportunità di fare “carriera” a corte del faraone.

I chakhamim sostengono che non ha importanza cosa si sogna, quanto invece, è importante sognare.

Colui che sogna è fortunato, perché dall’alto qualcuno si sta prendendo cura di lui. Viceversa, chi non sogna non viene neanche preso in considerazione.

Ogni sogno, per i maestri della qabalà contiene dei simboli che vanno interpretati e che sono l’elemento sostanziale di esso, tanto che, per un sogno che ci lascia turbati, è previsto un digiuno “ta’anit chalom” che in casi eccezionali può essere fatto anche di Shabbat.

Tutto questo però non deve condizionare la nostra vita, ma farcela vivere nel migliore dei modi, osservando le mitzwòt, preoccupandoci del prossimo e, soprattutto aiutarlo nel momento in cui egli ha bisogno.


Shabbat shalom,

 

Rav Alberto Sermoneta 

Parashat Vayetzé

Parashat Vayetzé

Parashat Vayetzé

Venezia Ebraica - Jewish Venice
A cura di Rav Alberto Sermoneta

Con la parashà che leggeremo questo shabbat, la Torà continua a narrarci del terzo dei Patriarchi:

Giacobbe; di lui ne ha già parlato nella parashà della scorsa settimana, ma continuerà a parlarne ancora fino al termine del libro di Bereshit ed all’inizio del libro di Shemot.

Infondo, Giacobbe, come vedremo la prossima settimana, diventerà Israel (gli verrà cambiato il nome dopo una lotta con un angelo divino che lo intratterrà, lungo il percorso per tornare alla casa paterna), sarà quindi il capostipite del nostro popolo.

Nella parashà di Va-jezzè, viene narrato il famoso sogno che fa, durante la strada per recarsi, fuggitivo dall’ira di Esaù, da suo zio Labano, il quale diverrà suo suocero.

Nel sogno si narra di una scala, la cui base è in terra e la cima si protraeva verso il cielo e gli Angeli divini salivano e scendevano da essa.

Molti commentatori hanno tentato di dare un’interpretazione al sogno, e molte sono state le varie spiegazioni.

Una fondamentale è quella che sostiene che l’intento del sogno era quello di indirizzare Giacobbe, verso una vita migliore; una vita che tende a salire moralmente, per abituarlo ad essere degno del suo destino.

Egli si sta allontanando da Erez Israel; per sfuggire ad Esaù emigra dalla terra di Israele per andare in Diaspora: nella tradizione ebraica quando ci si allontana da Israele si dice che si fa una jeridà – discesa (ossia da un luogo sacro ad un luogo profano); mentre quando si va in Israele da qualsiasi altro Paese, si fa la ‘alià – salita (verso il Sacro).

Nel brano in questione è detto che gli Angeli “salivano e scendevano”.

Gli Angeli celesti, rappresentano la figura di Giacobbe che è il progenitore del Popolo di Israele.

Quindi il sogno vuole far conoscere a Giacobbe il destino del suo popolo, che più volte sarà costretto a scendere verso la Diaspora, ma alla fine salirà verso la Terra di Israele, una alià completa e duratura.

Narra un midrash che, gli Angeli che salgono e scendono dalla scala, non sono altri che i popoli che perseguiteranno Israele nel corso della sua storia:

i primi salirono settanta gradini, ma poi scesero – questi sono i Babilonesi che perseguitarono gli ebrei nella loro Diaspora per settanta anni.

Poi altri Angeli, salirono cento gradini, ma poi, anche loro scesero;

quindi, il terzo gruppo, saliva, saliva e non scendeva mai; Giacobbe impaurito si rivolse a D-o chiedendogli chi rappresentassero costoro. Il Signore gli rispose che costoro rappresentavano Esaù ed il suo popolo, quindi Edom, quindi i romani e i popoli che da essi discenderanno.

Ma il Signore a questo punto rassicurò Giacobbe dicendogli che, se anche avessero salito duemila gradini, di là sarebbero scesi, sopportando tutte le conseguenze del male che avrebbero fatto al suo popolo.

Shabbat shalom,

 

Rav Alberto Sermoneta